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L'asso dei "rallies" Attilio Bettega ha provato per noi la nuova e scattante "125TC" • Antagonista un aereo della Pattuglia Acrobatica Nazionale • I dati delle loro accelerazioni rilevati durante la prova esclusiva di GENTE MOTORI

di Gianni Marin e Giuseppe Dicorato – Fotografie di Vanni Belli
da Gente Motori, n° 1, gennaio 1982, pp. 70 e segg.

Oltre 190 km/h di velocita massima, trenta secondi per percorrere il chilometro con partenza da fermo. “Sotto il segno dello scorpione” nasce l’arma assoluta nel settore delle berline sportive: la “Ritmo Aharth 2000” è l’erede dei coupé e spider degli anni ’50 e ’60, capace di raggiungere soddisfacenti compromessi tra prestazioni. consumi, abitabilità.
Per quello che riguarda le prestazioni di questa nuova vettura. GENTE MOTORI non si è accontentato di una prova su strada. Continuando una tradizione di “confronti impossibili” che inaugurò per primo in Italia, nel 1978, con una sfida (seppure teorica) tra una Porsche “Turbo” e un supersonico “Concorde” e che poi continuò con un confronto sul campo tra un carro armato “Leopard” e una Fiat “131 Diesel” (mentre il confratello TUTTOMOTO presentava una “sfida” tra un caccia su-personico “F-104” e una Honda), GENTE MOTORI ha voluto organizzare un confronto tra la “Ritmo Abarth” e un aereo a reazione di particolari caratteristiche: un Fiat “G 91 PAN”.
“Abarth Ritmo” o “Ritmo Abarth”? L’interrogativo riguarda l’essenza stessa del modello, in altre parole l’ “anima”. Una vettura senza compromessi: freni a disco turboventilati, sospensioni derivate da quelle dei modelli impegnati in corsa, assetti in grado di neutralizzare rollio e beccheggio senza per questo trasformare la vettura in una “tavola”, motore bialbero. Una Abarth, allora, che ha scelto casualmente una “Ritmo Fiat” per una esercitazione di alta tecnologia? Anche questa sarebbe una interpretazione errata. In realtà la scelta non è stata casuale. Puntando sulla “Ritmo”, le possibilità di successo per una operazione di sviluppo così radicale erano certamente elevate. Le caratteristiche di base della vettura, ampiamente dimensionata in partenza, erano la migliore garanzia per raggiungere un obiettivo ambizioso già sulla carta: montare in vettura un motore con potenza più che raddoppiata rispetto al modello-base, mantenendo però l’equilibrio di partenza. È proprio dalla conservazione dell’omogeneità tra potenza e caratteristiche del telaio, più ancora che dall’esasperazione di una di queste due qualità, che nascono le prestazioni della “Ritmo Abarth”. Un risultato che deve essere quindi equamente diviso tra la base di serie e l’apporto di Abarth. Da un punto di vista strategico la “Ritmo Abarth” contribuisce a chiarire i concetti ai quali si ispira la linea sportiva delle “Ritmo”. Da un lato c’è un riferimento a una tradizione che, anche in tempi recenti, con le versioni coupé della “124”, ha allargato il numero dei clienti di queste vetture; dall’altra l’individuazione di una formula nuova basata sull’azione parallela dei due modelli in cui si articola la gamma sportiva della “Ritmo”.
Con la “105 TC” la Fiat ha voluto inserire un suo modello nel settore delle berline sportive di diffusione relativamente vasta e ha “aperto la caccia” alla Volkswagen “Golf GTI”, alla Ford “Escort XR 3, all’Alfasud “1500”. Con la “Ritmo Abarth 2000” (e qui sta l’originalità dell’impostazione) fa un ulteriore passo avanti e si pone come obiettivo il raggiungimento di prestazioni confrontabili con quelle delle grandi sportive, dalla Porsche “924” alla Saab “Turbo” e altre.
La “Ritmo Abarth 2000” costituisce quindi l’ “ultima frontiera” nel campo delle berline a elevate prestazioni e si confronta non con il meglio della sua categoria (per questo c’è la “105 TC”) ma con vetture di impostazione ben più “specialistica”, costrette spesso a sacrificare alle prestazioni altri elementi (abitabilità, comfort, consumi), la cui importanza va ormai generalizzandosi in tutti i segmenti di mercato.
Questi gli obiettivi della Fiat. Ora si tratta di verificarne il raggiungimento: il “mostro” su strada dissimula con disinvoltura la sua vera anima. Dal punto di vista estetico le modifiche sono contenute: scudi paraurti di colore antracite, spoiler anteriore e posteriore. I passaruota sono allargati per consentire l’impiego di pneumatici a sezione allargata (sono i Pirelli “P 6 185/ 60 HR14” ) montati su cerchi in lega realizzati dalla stessa Pi-relli. All’interno l’abitacolo conserva le caratteristiche di spa-ziosità della “Ritmo”, pur con allestimenti realizzati per l’occasione: rivestimento con pan-no di lana spigato, sedili ante-riori avvolgenti. Riveduta anche la dotazione degli strumenti e nuovo il volante Abarth.
Ma ormai è il momento di mettere in moto e di fare le opportune verifiche. Ecco, a caso, le impressioni registrate nei primi chilometri: sospensioni rigide sullo sconnesso, ma nessuna variazione di assetto, neppure al passaggio su buche e screpolature dell’asfalto. Qui deve essersi concentrato molto del lavoro dell’Abarth: con pneumatici larghi e a fianco basso, in presenza di una sospensione molto “frenata”, c’erano da aspettarsi scarti sullo sconnesso dovuti alla variazione di assetto del corpo della vettura rispetto al suolo e della corrispondente riduzione dell’area di impronta al suolo del pneumatico. Niente di tutto questo: la “Ritmo Abarth”, anche in queste condizioni, man-tiene la sua traiettoria senza scarrocciamenti.
Andiamo avanti con le impressioni di guida. Ancora sull’assetto: capacità di trasferire a terra la potenza del motore. Era uno dei punti che rendeva più perplessi gli addetti ai lavori: 125 cavalli di potenza massima, una coppia di 17.5 kg/m, il tutto montato su una trazione anteriore. C’è davvero da rimanere sconcertati. E invece ogni perplessità scompare dopo i primi chilometri. Intendiamoci: la “Ritmo Abarth” non è un’auto per tutti. Chi ha qualche difficoltà nella guida di tutti i giorni desi-sta subito dal semplice pensare a una vettura di questo tipo. Qui ci vuole gente con una certa esperienza nel campo delle auto-mobili veloci, e se l’esperienza c’è, problemi davvero non ne esi-stono. Anche con le marce bas-se inserite, le perdite di aderen-za in accelerazione sono limita-te. Merito dei pneumatici larghi, ma soprattutto della loro corretta utilizzazione. Sulla “Ritmo Abarth” ci sembra che, per la prima volta, sia stato affrontato e risolto il problema dell’adozione di pneumatici di tipo “supersportivo” su vetture di grande serie.
Certo, le esperienze di Riccardo Patrese al Giro d’Italia automobilistico con una “Ritmo 1.5 litri” da oltre 150 cavalli sono pur servite a qualcosa, come pure i collaudi che il pilota padovano ha personalmente condotto sulla pista di prova della Fiat alla Mandria. Probabilmente è stata proprio l’anima corsaiola dell’Abarth a consentire l’adozione di un assetto così riuscito: valido al tempo stesso sul “liscio” dell’autostrada e sullo scon-nesso delle provinciali. Ma anche nei rallies situazioni così contrastanti sono all’ordine del giorno. E allora perché stupirsi
Abbiamo prima accennato al “liscio”: in queste condizioni la “Ritmo Abarth” dà il meglio di sé. Nessun coricamento in curva e limiti di aderenza elevatissimi, tanto elevati da non essere neppure mai sfiorati nel corso delle nostre prove, almeno nei lunghi curvoni autostradali, dove il contagiri a quasi 6000 giri al minuto ci autorizzava a pensare di essere a cavallo dei duecento chilometri all’ora. In un breve assaggio sulla pista di Varano il comportamento della “Ritmo Abarth” è venuto fuori con maggiore evidenza, e questo è un campo d’azione per pi-loti con esperienza certa. Nelle curve lente il comportamento è inizialmente sottosterzante, ma non appena la sospensione raggiunge condizioni di equilibrio (e cioè la deformazione delle molle si mantiene costante dopo l’iniziale riduzione della “freccia” in fase di inserimento): la “Ritmo Abarth” diventa strumento di precisione. Sembra che qualsiasi variabile sia scomparsa e che la ricetta per compiere la curva sia univoca: dato un angolo di sterzata “X” e una velocità di percorrenza “Y”, la traiettoria non può che essere una. Lo stesso nelle curve medio-veloci, dove l’assetto della vettura può essere facilmente modificato con l’acceleratore: in caso di abusi di sottosterzo per una entrata troppo decisa, basta un lieve rilascio per trovarsi tra le mani una vettura neutra/sovrasterzante. Una caratteristica che, ben sfruttata, rende imbattibile questa vettura sui percorsi misti.
Sospensioni a posto, ma anche una “scocca” all’altezza della situazione. Con pneumatici così larghi e con una sospensione così sofisticata le accelerazioni in curva, rispetto al modello di serie, sono certamente aumentate; a occhio e croce parleremmo di un 30-35 per cento in più. Ebbene, anche in condizioni-limite di questo tipo, la rigidità della vettura si mantiene buona e non si avvertono le classiche, improvvise variazioni di assetto caratteristiche di una deficienza del corpo-vettura. Segno che l’aver impiegato l’elettronica in fase di progettazione (vi ricordate del plotter?) non era solo una trovata pubblicitaria. Una prova? I punti di saldatura della scocca sono gli stessi di quelli della versione “60 L” con motore da 60 CV, Sulla Abarth i cavalli sono diventati 125, ma da quel settore nessuna lamentela.
Siamo su strada e allora vediamo cosa ci riserva la frenata. Con due dischi anteriori turbo-ventilati, con una pompa maggiorata – rispetto alla serie, non c’era da avere troppe perplessità. Lo verifichiamo su strada e ancora una volta, data per scontata la potenza della frenata, è l’assetto che sorprende. In nessun caso ci si trova davanti a reazioni imprevedibili. Basta tenere saldamente il volante con le mani (e questo consiglio, ricordatevelo, vale anche nel caso di accelerazioni brusche a ruote sterzate, ad esempio all’uscita di una curva, perché i cavalli sono 125 e tutti insieme tentano di togliervi lo sterzo dalle mani) e il più è fatto.
La vettura sta in strada e frena. Due buone qualità, certamente; ma il motore? Primo elemento, forse, per una supersportiva come la Abarth, lo abbiamo tenuto come ultimo apposta perché i grandi obiettivi da raggiungere per una trazione anteriore così potente erano soprattutto quelli relativi all’assetto. Da un “due litri” Abarth che cosa vi volete aspettare: cavalli, cavalli e … ancora cavalli. Un ritornello monotono, forse, ma non per chi sta al volante. Il “due litri corsa lunga” dell’Abarth non ha bisogno di troppe presentazioni. Montato sulla “131 Abarth Rally” ha vinto tutto quello che si poteva vincere. Sulla “125” i 230 cavalli della versione corsa si sono ridimensionati, ma questo vi può dare un’idea dell’affidabilità del motore della “125”, che in nessuna occasione dà segno di essere sotto sforzo. Data per scontata la potenza, i tecnici dell’Abarth hanno lavorato sulla curva di coppia, e se la “punta” la si ottiene a 3500 giri/min. (un regime di per sé già contenuto), non bisogna dimenticare che a soli 2000 giri si dispone già dell’80 per cento del valore massimo della coppia. Ecco spiegato il soffice comportamento del motore anche nel traffico cittadino e i consumi relativamente contenuti (almeno fino a quando non si guida “sotto il segno dello scorpione”). Per il cambio, alla Fiat sono andati sul sicuro: uno ZF a cinque marce (ma la quinta è in posizione “normale”, in alto a destra).
Pregi e difetti. Pregi: robustezza di costruzione, innesti precisi. Difetti: una griglia di selezione forse un po’ stretta, che dà qualche problema per l’inserimento veloce della quinta. Ma questo può anche essere dovuto a una non corretta registrazione della tiranteria del cambio che, per inciso, è sdoppiata, secondo una recente tecnica Fiat che separa il comando della selezione da quello dell’innesto, a tutto vantaggio della precisione.
Ora anche le auto hanno la loro “Kavvasaki” per correre sulle strade ma anche in pista. La “Ritmo Abarth 2000” è la vettura da battere nella nuova “classe N” (nazionale), ed è certamente in grado di difendersi nel-la “classe A” (ex-gruppo 2).
E il futuro potrà riservare altre sorprese ancora. Ma sorprese non ce ne saranno per l’utente della vettura di serie. Prestazioni Abarth, ma assistenza Fiat: forse vale la pena di ricordare che l’Abarth è un marchio Fiat e fa parte del Gruppo Fiat, e quindi anche la “Ritmo Abarth” ha dietro di sé tutta l’organizzazione di assistenza della Fiat.

Frecce Tricolori: oltre mezzo secolo di storia

Le origini della Pattuglia acrobatica nazionale (“PAN”) dell’Aeronautica militare italiana risalgono al 1930, quando a Carnpoformido venne costituita dal colonnello pilota Rino Corso Fougier la prima scuola di acrobazia collettiva dell’allora Regia Ae-ronautica. L’attività cominciò con cinque biplani Fiat “CR 32” (uno del migliori caccia progettati dall’ingegner Celestino RosateIII), che si presentarono per la prima volta in pubblico 18 giugno 1930. Dopo di allora, la neonata Pattuglia acrobatica si esibì, oltre che in Italia, anche all’estero, suscitando ovunque ammirazione ed entusiasmo. Interrotta clano seconda guerra mondiale, l’attività acrobatica col-lettiva nell’ambito dell’Aviazione militare italiana riprese con pattuglie costituite presso ogni aero-brigata. Famosi divennero negli anni Cinquanta, tra gli altri, i “Diavoli Rossi“, i “Getti Tonanti“, Il “Cavallino Rampante” e le “Tigri Bianche“. Alla fine del 1960 veniva decisa la costituzione di un’unica Pattuglia acrobatica nazionale, con sede stabile sull’aeroporto di Rivolto, vicino a Udine (e vicinissimo a Campoformido, cioè alla culla dell’acrobazia collettiva italiana). Nascevano cosi le “Frecce Tricolori”, inizialmente montate su North Arnerican “F-86E Sabre”. Successivamente, diventato disponibile li Fiat “G 91 PAN“, veniva effettuato II passaggio sul-le nuove macchine italiane, ora in via di sostituzione con i più moderni addestratori Aermacchl “MB 339”.

Aeroporto militare di Rivolto (Udine), base della Pattuglia acrobatica dell’Aeronautica militare italiana, ufficialmente nota come “PAN” (dalle iniziali di “Pattuglia Acrobatica Nazionale”) e più popolare con l’appellativo di “Frecce Tricolori”. Sulla pista sono pronti, a fianco a fianco, i protagonisti di un nuovo “confronto impossibile” minuziosamente preparato da GENTE MOTORI, prima che altre riviste del settore riprendessero l’iniziativa), da noi organizzato con la più completa collaborazione dell’Aeronautica militare, oltre a quella della Fiat.
Avevamo provato su strada, in anteprima assoluta, la hai “Ritmo Abarth”. Ma non ci bastava: per avere, di questa vettura così aggressiva e scattante, un’immagine di confronto che colpisse la fantasia, non restava che metterla a fianco di una macchina che fosse una sintesi di velocità, agilità, manovrabilità in alto grado. E se anche quest’altra macchina avesse magari avuto una progenitura comune, meglio ancora. Così la scelta finì col cadere – era inevitabile – su un aereo; e su un aereo che della “Ritmo Abarth” porta lo stesso nome di famiglia: il Fiat “G 91 PAN”, elaborazione per le “Frecce Tricolori” del caccia tattico Fiat che a suo tempo vinse un concorso della NATO per un velivolo della sua categoria. Da quel tempo sono passati un po’ di anni (ventisei e qualcosa, per l’esattezza): quanti ne bastano per decretare l’andata in pensione di un aereo. L’anziano “G 91” sta infatti per essere sostituito, nella “PAN”, dal più moderno Aermacchi “MB 339”. Si concluderà così una lunga carriera che ha visto il “G 91” esibirsi, in Italia e all’estero, in manovre e figure acrobatiche mozzafiato.
Per il nostro confronto, naturalmente, non ci sarà bisogno di tanto: ci basterà una sfida sull’accelerazione. È per questo che i due mezzi sono adesso lì, affiancati, sulla pista di Rivolto. Partiranno insieme e, cronometri alla mano, si vedrà se e fino a quando (cioè, fino a che distanza) la Fiat “Ritmo Abarth” riuscirà a tener testa al “G 91”. Il quale ultimo, a un certo punto, comunque, si staccherà dalla pista per innalzarsi nel suo elemento naturale. E sarà questo il logico limite del nostro “confronto impossibile”.
Impossibile oltre un certo limite, per le macchine, il confronto non lo è per gli uomini che vi sono impegnati. Pilota dell’aereo è il capitano Vito Posca (32 anni, 2500 ore di volo, istruttore sui “G 91”, nato a Lamezia Terme). Nella “PAN”, dove ogni pilota ha una ben precisa posizione in formazione, è il numero 4. Il pilota della “Ritmo Abarth” è Attilio Bettega, trentino (di Molveno), 28 anni, sposato, con un figlio. Di suo mestiere albergatore, è entrato in squadra con la Fiat nel 1979, dopo una vittoria di Campionato con la “A 112”. Da allora ha accumulato vittorie e affermazioni in rallies di rilievo in Italia e all’estero.
In pista, mentre attendono di dare il “via!” al confronto, Posca e Bettega parlano delle rispettive macchine, si scambiano impressioni e opinioni. Anticipando, in un certo senso, quanto tra poco faranno l’auto e l’aereo, cercano di capire fino a che punto hanno qualcosa in comune, fino a che limite i loro modi di vivere e di rischiare si accomunano e si incontrano (anche se nessuno dei due è d’accordo sul fatto che, come si dice, il rischio sia il loro mestiere: « Non facciamo niente di più rischioso di quello che fanno tanti altri », dicono).
Per la verità, Bettega non ha difficoltà ad ammettere che, in una ipotetica graduatoria di rischio, un pilota della “PAN” lo precede di alcune lunghezze. Dice a Posca: « Noi, quando siamo in corsa, abbiamo la possiibilità di variare, di improvvisare al momento quello che ci fa più comodo. Possiamo per esempio decidere se tagliare o no una curva, o che so io … Voi, non so ». Su questo punto Posca è d’accordo con i colleghi che dicono, rispondendo a Bettega: « Noi, proprio no. Nelle nostre manifestazioni il programma di volo segue uno schema rigido, che impariamo a rispettare in mesi e mesi di allenamenti quotidiani. Per fare un pilota acrobatico, dal momento in cui uno arriva qui dal reparto fino a quando è qualificato per la pattuglia, occorrono intorno ai sei mesi. E poi, dopo, ci vuole un allenamento giornaliero. Si fa in fretta a disimparare … Per esempio, in luglio abbiamo fatto due settimane di ferie. Al ritorno, il primo giorno che siamo andati in volo già accusavamo deficienze. errori di sincronizzazione. Dobbiamo funzionare tutti insieme come una macchina perfettamente a punto, con una precisione da cronometri svizzeri. Ogni manovra individuale deve essere sincronizzata al secondo con quella degli altri componenti la pattuglia. Non si può inprovvisare proprio nulla, non possiamo fare quello che potrebbe esserci più comodo ».
Ed è assolutamente vero. Basta vedere questi assi dell’acrobazia in formazione, quando si esibiscono in volo ala contro ala o si incrociano separati in verticale di pochi metri, per capire che chi improvvisasse potrebbe non avere il tempo di pentirsene.
Riprende Bettega. Dice: « Voi però non avete un problema tutto nostro, quello della folla che si ammassa, durante una corsa, nei punti migliori del circuito: che sotto poi i più pericolosi. Recentemente, per esempio, durante una gara mi sono trovato, al termine di una discesa ripida, di fronte a una curva piena di gente ammassata dietro le balle di paglia. Non ho potuto fare altro che augurarmi mentalmente che non accadesse nulla. Non è accaduto … ». Replica Posca: « Be’. noi non abbiamo la folla davanti, ma ce l’abbiamo sotto. E quando sotto di noi sono ammassate, come è accaduto in certe manifestazioni, specialmente all’estero, alcune migliaia di persone, alla tensione dell’acrobazia in gruppo si accompagna quella che nasce dalla consapevolezza che un errore di manovra o un’avaria potrebbero portarti addosso alla gente. E c’è stato, fra noi, chi si è sacrificato proprio perché questo non accadesse».
Dice Bettega: « D’accordo; però in caso di pericolo voi potete buttarvi fuori con il seggiolino ». « Non è sempre detto », risponde Posca, e aggiunge: « L’emergenza può verificarsi in un assetto di volo imprevedibile. Cioè: quando ci si lancia con il seggiolino a espulsione? Quando l’aereo non è più governabile. Ma in quel momento il velivolo può essere in volo rovescio, in vite, a coltello, in un assetto che rende inutile o altamente pericoloso buttarsi fuori con il seggiolino. E allora è come essere intrappolati in una “formula uno” che finisce di colpo fuori pista ».
Il richiamo automobilistico è raccolto da un altro pilota della “PAN”, il maggiore Diego Ranieri (31 anni, 1600 ore di volo, accademista, numero 3 in pattuglia). Dice: « Ecco, è l’addestramento che la del pilota normale un pilota da acrobazia, così come un guidatore normale si trasforma con l’addestratnento in pilota da “formula uno”. E l’addestramento fa sì che il pilota sappia, in ogni situazione, che cosa deve fare, conte deve reagire ».
Dal piano, diciamo così, psicologico, il confronto tra gli uomini si sposta su un terreno pratico quando Bettega, dopo aver dato un’occhiata al cruscotto del “G 91” affollato di strumenti, commenta: « Certo che voi avete un bel po’ di roba da tenere d’occhio … ». Posca precisa subito: « C’è una differenza: che voi piloti di auto dovete guardare sempre tutti, o quasi, quei pochi che avete. Noi, i nostri dobbiamo tenerli d’occhio tutti quanti solo quando facciamo i voli di collaudo dopo le revisioni. Allora dobbiamo controllare — perché ne va della nostra sicurezza — che gli aerei funzionino in ogni loro componente e che tuoi gli stru-menti si comportino con assoluta regola-rità ».
A questo punto c’è una domanda che preme al cronista. Ed è una domanda che riporta il confronto sul terreno psicologico, perché verte sul tema della paura. Piloti d’auto e d’aerei di prestazioni spinte, per bravi che siano, non sono superuomini, ma uomini con le loro ansietà e le loro paure. Insomma, chiede il cronista all’uno e agli altri, vi è mai capitato, vi capita mai di avere paura? La risposta di Bettega è un “no” abbastanza reciso, anche se possibilista. Quanto ai piloti della “PAN”, ad affrontare il tema con una risposta che rias-sume un po’ i diversi punti di vista, è il capitano Gian Battista Molinaro (31 anni, 1700 ore di volo: in pattuglia è il “solista”, cioè quello che nel corso di alcune manovre si esibisce da solo in passaggi mozzafiato so-pra, sotto, di fianco ai colleghi, in assetto normale o rovescio). Dice Molinaro: « Non diciamo che abbiamo paura nel senso comune del termine (la paura che ti paralizza). Diciamo che siamo in continua tensione » (e quale sia il grado di tensione, il cronista lo vedrà più tardi, quando di ritorno da una esibizione in volo i piloti gli compariranno davanti con le tute letteralmente madide di sudore). « Quando voliamo in formazione con le estremità delle ali a due metri l’una dall’altra, e soprattutto quando facciamo acrobazia in queste condizioni, è chiaro che non possiamo non essere in tensione. E quando entriamo in formazione in un cumulo-nembo, cioè in un temporale, non è semplice rispettare quei due metri. Perché uno di noi può fare uno rompo di trenta metri, e un altro di dieci… E poi, quattro o cinque metri più avanti non si vede più nulla… ».
Da queste affermazioni (e da uno scambio di opinioni con Bettega che ne consegue), nasce una constatazione che approfondisce di un altro po’ il confronto tra gli uomini. La constatazione è che, se non è detto che un buon pilota di “formula uno” sia sempre e comunque il buon guidatore di una tranquilla berlina, in compenso è certo che un pilota addestrato all’acrobazia aerea in formazione — e nelle condizioni limite di cui parlava Molinaro — non può, una volta che sia messo per esempio su un aereo di linea, non essere un ottimo pilota.
È inevitabile che, su quest’ultimo spunto, il cronista innesti una domanda che tocca un punto dolente: quello dell’esodo dei piloti militari verso le più remunerative carriere offerte dall’aviazione commerciale. Risponde il capitano Fabio Brovedani (33 anni, 2100 ore di volo, numero 2 in pattuglia): “Prenda il mio caso: capitano con moglie e tre figli. Il mio stipendio netto, tutto compreso, con le indennità di volo, è di un milione e cento al mese. Lo stipendio base è di quattrocentomila lire. Non abbiamo assicurazioni, per cui se perdiamo l’idoneità al volo per una qualunque imperfezione fisica, perdiamo anche l’indennità. E allora non è facile resistere alle tentazioni quando, per esempio, l’Alitalia ci offre uno stipendio triplo e un lavoro molto, ma molto più tranquillo. Ci vuole molta passione per continuare a fare questo mestiere… ». Un mestiere (per usare il termine riduttivo di Brovedani) che tra l’altro consente all’Italia di mandare in giro per il mondo una pattuglia acrobatica che molte altre aviazioni ci invidiano e che — al di là di ogni tentazione retorica — è veramente un prestigioso biglietto di visita.
Il confronto tra gli uomini è finito: ora è arrivato il momento di quello tra le macchine. Nei minuti che precedono la partenza simultanea, sulla pista di Rivolto, della “Ritmo Abarth” e del “G 91”, c’è spazio per un paragone che mette in luce la relativa semplicità dell’una e la complessità dell’altro. A Bettega, per avviare la “Ritmo” e prepararla allo scatto di partenza, bastano un giro di chiave e una pressione del piede sull’acceleratore. Qualche minuto per scaldare il motore, un’occhiata alla pressione dell’olio, alla temperatura dell’acqua e alla carica della batteria, e l’auto è pronta al “via”. Su Posca incombe una lunga check list, una lunga serie di verifiche che si sintetizza in: 150 controlli pre-messa in moto; 17 in fase di pre-rullaggio; 14 in rullaggio; 17 dall’autorizzazione al decollo fino al de-collo compreso. Ed è al decollo, venti secondi dopo l’inizio della corsa, che il “confronto impossibile” tra l’auto e l’aereo ha la sua forzata conclusione. Mentre riassumiamo i dati di questo confronto (che, tradotto in un grafico di immediato linguaggio visivo, trovate riportato in queste pagine), Bettega frena la corsa della “Ritmo Abarth” e, con una conversione a U, torna verso il punto di partenza. Un “a fondo” sull’acceleratore, un giro di chiave per spegnere il motore, e il compito del pilota dell’auto è finito. Per il capitano Posca, che si appresta a tornare a terra dopo un breve giro sul campo, c’è ancora un’altra check list da rispettare rigorosamente: 17 controlli in fase di discesa, 20 in pre-atterraggio e atterraggio, e 18 sul piazzale, prima di spegnere il motore.
Anche su questo piano non rimangono dubbi: è stato proprio un confronto impossibile. Quindi, senza vinti né vincitori. Un confronto, comunque, che ci ha accostato a uomini — come i piloti della “PAN” — che tutti dovremmo conoscere: perché tutti avremmo qualcosa da imparare da chi ha fatto del rischio (anche se calcolato) il suo mestiere. E lo fa serenamente, con passione, credendo in quello che fa. Il che, di questi tempi, non è cer-tamente una cosa da poco. O no?

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