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Vito Posca racconta

da “55 anni di emozioni..”, a cura di Alessandro Cornacchini, 2015, p. 119

«Vito, il pubblico non sa cosa lo aspetta. Viene a fare una scampagnata in aeroporto, un pic-nic. Non sa bene cosa sia una manifestazione aerea. Noi lo dobbiamo stupire. Non dobbiamo dare il tempo alla gente di azzannare la coscia di pollo che si è portata per pranzo. Devono tutti rimanere così: per mezz’ora con la coscia in mano e la bocca aperta a guardare per aria. Dobbiamo essere perfetti… stringiamo, stringiamo e non diamogli respiro!».

Quando sono stato chiamato a fare il capoformazione delle “Frecce Tricolori”, in un periodo davvero difficile per il Reparto, mi sono venute in mente queste parole. Era quello che mi diceva spesso Toni Gallus, tragicamente scomparso nell’incidente del settembre ’81. Per me Gallus era un idolo, una persona eccezionale: un gran pilota, non ho più visto nessuno pilotare l’aeroplano come faceva lui; è stato un capoformazione come credo non ce ne siano più stati in Pattuglia e un uomo come se ne incontrano pochi nel corso di una vita. Un vero leader, che avresti seguito ovunque.

Quando c’è stato lo sciagurato incidente di Toni, io avevo iniziato l’addestramento per ricoprire, presumibilmente nella stagione successiva, quella dell’82, la posizione di numero 6, sempre con Gallus leader. Fino ad allora ero stato il 7, il 4 e il 2. Con la nuova stagione ci sarebbero stati dei cambiamenti in formazione, degli scalamenti, qualcuno usciva… altri entravano, insomma, cose normali. L’incidente, come comprensibile, ci aveva precipitato in una crisi profonda. Avevamo perso tragicamente e impiegabilmente il capoformazione e tutto a quel punto fu messo in discussione, la stessa esistenza del Reparto. Trovammo la forza di non fermarci; stringendo i denti chiudemmo le manifestazioni, consapevoli del fatto che se avessimo avuto qualche esitazione, se avessimo aderito all’idea di sospendere anche per poco l’attività, sarebbe stata la fine della Pattuglia. E allora continuammo!

L’incidente di Gallus, intanto, aveva affrettato l’uscita di scena del G.91. Della sostituzione della macchina se ne parlava da tempo. Le ipotesi non erano molte. Facemmo proprio con Gallus una durissima prova del G.91T, che si dimostro non adatto al nostro lavoro. Mi ricordo di quella volta che Gallus tirava come un matto, l’aeroplano che arrancava e noi pure… quindi la scelta del “339” era quasi obbligata e lo Stato Maggiore superò ogni esitazione e ci inviò a Lecce per iniziare l’addestramento sul Macchi.

Era necessario anche individuare un nuovo capoformazione: la scelta cadde su di me. La cosa mi colpì molto perché non me l’aspettavo. Mi sentii quasi schiacciato da questo enorme carico di responsabilità, ma ero al tempo stesso molto onorato di quella scelta. Mi buttai a capofitto nel lavoro tutt’altro che banale che c’era da fare. L’addestramento di quell’inverno fu lungo e complesso perché non c’era solo la necessità di trovare un nuovo leader, come dicevamo, ma tutti i componenti della Pattuglia dell’anno precedente avrebbero cambiato posizione. Fu una fase veramente impegnativa: velivolo nuovo, formazione tutta “rivisitata”. Una bella sfida, insomma. Il G.91, lo avranno detto i miei colleghi del tempo, era una macchina agile, ala a freccia, con un’elevata velocità di rotazione e di lavoro. Un velivolo per certi versi più difficile rispetto al “339” perché se sbagliavi una manovra ti dava minori possibilità di correggere, però anche più semplice perché la manovra era meno “lavorata”. Abbiamo impiegato tutta la prima stagione, quella dell’82, per trovare la giusta calibrazione delle diverse posizioni, i giusti scalamenti per presentare nuovamente quelle figure che avevano reso famose nel mondo le ‘Frecce Tricolori”. Avevamo difficoltà e molti dubbi di riuscire a riproporre un programma che con il G.91 “veniva via” in modo spettacolare, lineare, armonico e potente allo stesso tempo. L’ala dritta del “339” non ci aiutava affatto e i tentativi e le correzioni per arrivare al risultato ottimale erano continui.

In quel periodo è stato importantissimo il lavoro svolto dalla biga, come l’intesa tra me e il n. 6, Fabio Brovedani. Per realizzare il famoso ‘Rombo” della PAN, godibile da qualunque prospettiva, trovammo la soluzione di volare con quasi due metri di “overlap” delle ali, questo però ci provocava dei fastidiosi problemi aerodinamici, fummo quindi costretti ad aumentare il gradino, la distanza sul piano verticale per non avere interferenze l’uno con l’altro. Quel primissimo periodo lo ricordo come intenso e impegnativo.

Come dicevo, iniziammo l’addestramento con gli aeroplani della Scuola di Galatina, lì sulla base pugliese. Ma diventammo presto ingombranti e quindi, nella primavera dell’82, ci portammo gli aeroplani a Rivolto e poco prima dell’inizio della stagione arrivarono anche i nostri velivoli.

Iniziò, dunque, il tour estivo, il primo con l’MB.339. Ricordo come fosse oggi la manifestazione a Napoli. Ero emozionatissimo, la prova era di quelle che si affrontano una o due volte nella vita. Mi aspettavo di avere almeno una pista sotto e, invece, l’esibizione era sul mare e la mia pista era la direttrice che univa Posillipo a Castel dell’Ovo tracciata con una fila di boe. La notte precedente dell’esibizione non ho chiuso occhio: dubbi, incertezze, emozione. Tutto si dissolse, però, alla messa in moto, anzi al primo ordine. Al “Tiriamo su” la concentrazione divenne massima, non ci fu più spazio per nient’altro. Eseguimmo un programma pressoché perfetto e la soddisfazione fu tanta. Avevamo fatto un primo grande passo. Mi stavo rilassando nel dopo manifestazione quando mi chiamò Gianfranco Da Forno, il nostro ufficiale addetto alle pubbliche relazioni. «Vito, aspetta che c’è qui una persona che ti vuole salutare», mi disse. Lo raggiunsi e vidi lì, tra la gente mia moglie che per la prima e, devo dire anche ultima volta, era venuta a Napoli a mia insaputa a sostenermi in silenzio in quella mia prima uscita da leader. Inutile dire che mi fece un infinito piacere.

Insomma il ghiaccio era rotto e sfruttammo quel 1982 per fare sempre meglio, per migliorarci ogni giorno di più. A ogni manifestazione in ogni occasione che si presentava come difficile o stimolante, riportavo alla mente le parole di Toni Gallus: «Non devono avere il tempo di azzannare la coscia di pollo». E così stringevamo, stringevamo così tanto che alla fine riducemmo il programma di volo del 30% rispetto a quello del G.91. Per avere un parametro di confronto considerate che nella seconda parte della stagione ’82, e poi naturalmente per tutto l’83, ho tirato gli stessi “g” che tirava Toni Gallus con una macchina, però, più veloce (tra gli 80 e i 100 nodi in più) e prestante.

Per tornare al nostro racconto: man mano che si andava avanti nell’eseguire le varie manovre di quella prima stagione a volte scoprivamo che le posizioni non erano sempre perfette, che si poteva fare meglio e quindi correggevamo: 10 centimetri più su, dieci più giù. Tutto quel primo anno fu un continuo sperimentare per sfruttare al massimo l’aeroplano che ci avevano dato, finché verso la fine della stagione raggiungemmo l’obiettivo: non far rimpiangere il G.91 ed eseguire un programma incalzante, fluido, armonico, vigoroso, che si svolgesse tutto davanti al pubblico e non consentisse di azzannare l’ormai famosa “coscia”. Ce l’avevamo fatta, eravamo fuori dal tunnel, grazie a una buona macchina, certamente, ma soprattutto a dieci piloti eccezionali con una grandissima esperienza di volo e a tanto, tanto impegno.

La tradizione era salva e noi ne eravamo degni!

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