Ultimo aggiornamento: 17 Aprile 2019
A bordo di un jet della pattuglia acrobatica dell'Aeronautica Militare
di Giovanni Caprara
da Il Corriere della Sera – 19 luglio 2010 [ fonte ]
Marco Lant, tenente colonnello dell’Aeronautica, è nato al di là della rete che segna il confine della base più ambita e sognata per un pilota. Ancora bambino, tra le case del suo paese, alzava gli occhi al cielo. «E vedevo sfrecciare i jet blu della pattuglia acrobatica inseguendoli con il pensiero». Ora li comanda. Sorride compiaciuto quando racconta della straordinaria annata che si prepara a festeggiare. Cinquant’anni fa nasceva la PAN, Pattuglia Acrobatica Nazionale; mezzo secolo di prodezze tra le nuvole che hanno lasciato scie di ricordi tra gli spettatori di tutte le nazioni dove è stata protagonista. Era il luglio 1961 quando sull’aeroporto di Rivolto si formava il 313° Gruppo addestramento acrobatico e sulla coda dei caccia Sabre compariva per la prima volta la scritta “Frecce Tricolori”.
Non era però un caso se ciò accadeva in quest’angolo di Friuli segnato dal Tagliamento. Poco lontano, dai prati di Campoformido nei giorni della Prima guerra mondiale decollava Francesco Baracca, il mito dell’aviazione italiana, e nel 1930 Rino Corso Fougier creava la prima scuola di volo acrobatico. Non era, dunque, un caso se il padre di Marco Lant portava il figlio alle feste alate che talvolta la domenica erano organizzate nelle città intorno. «E ho mentito a mia madre», dice Marco, «per entrare in aviazione». Una bugia propizia che l’ha portato dieci anni fa di nuovo nella terra di Rivolto dopo aver conquistato il brevetto di pilota negli Stati Uniti sui caccia T-38 adoperati negli addestramenti anche dagli astronauti della Nasa, e dopo quattro anni passati alla guida dei supersonici Tornado. Forse proprio questa tappa è stata decisiva. «Ero nella base di Ghedi», racconta, «e lì ancora si respira l’aria elettrizzata lasciata dai Diavoli Rossi». Ma chi erano questi Diavoli? Alla fine degli anni Cinquanta, sull’aeroporto immerso nella bassa bresciana tra il granturco e la calura che d’estate toglie il respiro, il capitano Mario Squarcina, celebrato personaggio nelle storie dei piloti, creava una pattuglia con un diavolo armato di tridente che spuntava dalla fusoliera. Le Frecce Tricolori, infatti, oltre una storia hanno pure una preistoria altrettanto affascinante che inizia nell’immediato dopoguerra. Allora accadeva che nei reparti dell’Aeronautica si formassero di anno in anno dei gruppi acrobatici utilizzando gli aeroplani di costruzione americana. Di quell’epoca, durata oltre un decennio, restano le fotografie ingiallite con gli sguardi decisi dei piloti e i nomi fantasiosi “di battaglia”: Cavallino Rampante, Tigri bianche, Getti Tonanti, Lanceri Neri. Nel 1957 durante il salone aeronautico di Parigi-Le Bourget Le Figaro scriveva: «Gli italiani, nuovi venuti in queste competizioni amichevoli ma terribilmente serrate, hanno avuto nettamente la meglio davanti alla pattuglia inglese magnificamente rodata. Ma si ebbe da parte degli italiani che pilotavano i Sabre, una immaginazione, delle trovate e un senso dello spettacolo davvero ammirevoli». Da allora i commenti, anche degli avversari più critici, non sono cambiati.
Ogni anno due nuovi piloti
Ma il continuo peregrinare portava l’esperienza a disperdersi. Per evitarlo e, al contrario, consolidarla, nel 1960 lo Stato Maggiore decideva di dare forma concreta e permanente a questa frontiera del volo creando un reparto dedicato all’acrobazia come accadeva nelle altre aviazioni straniere. Così nasceva il gruppo di Rivolto nell’aeroporto che ospita il 2° Stormo al comando del colonnello Enrico Frasson e da dove si coordina tutta la difesa missilistica dell’Aeronautica Militare.
Ogni anno, da maggio a ottobre, un fitto calendario di manifestazioni porta le Frecce Tricolori nei cieli delle regioni italiane e dei Paesi stranieri. Volano in dieci e i piloti provengono da tutte le basi: sono i migliori e rappresentano con orgoglio anche il meglio dell’Italia oltre che della forza armata. La selezione è ardua. «Ogni anno», racconta il comandante, «inseriamo uno o due nuovi piloti scelti fra i dieci finalisti rimasti fra quelli che si presentano volontari». Pur essendo già tutti ufficiali provetti con esperienza di volo varia e ricca, occorrono poi altri otto mesi di preparazione. Attorno a loro si muovono tecnici super specializzati che garantiscono la sicurezza. «Quando decolliamo non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Dal rullaggio uscendo dall’hangar e sino all’atterraggio dobbiamo seguire un programma serrato che non concede tregua. Le figure devono succedersi fluide, senza interruzioni, garantendo armonia al volo». Marco Lant sembra dipingere con le parole le geometrie tracciate dai suoi jet. Ma come ci si può sentire lassù, mentre l’aeroplano saetta quasi alla velocità del suono compiendo virate e giravolte? Lo abbiamo provato direttamente condividendo un addestramento assieme allo stesso comandante Lant.
Nome in codice: Pony 0
Rivestito del completo di volo, casco, maschera d’ossigeno e tuta anti-g per costringere il sangue a fluire verso il cervello nelle manovre più ardue evitando il blackout cerebrale, decolliamo. A pochi metri di distanza si alza un altro jet della Pattuglia con alla cloche il maggiore Simone Cavelli. Nomi in codice Pony 0 (il mio) e Pony 10. È una missione in coppia eccezionale perché Cavelli è il solista, l’uomo che piroetta fuori dal coro e che nelle esibizioni appare e scompare nei momenti più accesi tagliando le figure dei compagni. «C’è subito una differenza tra noi e le pattuglie straniere», mi spiega Lant nell’interfono, «loro si muovono sullo stesso piano, noi distanziati di tre metri in altezza. Inoltre siamo il gruppo più numeroso e durante il volo si resta sempre davanti agli occhi del pubblico». Sono tre caratteristiche che li distinguono dai concorrenti garantendo uno spettacolo decisamente più difficile, ma certamente più emozionante. Intanto siamo nel cielo sul campo, teatro tradizionale di tutte le prove quotidiane. E qui infiliamo virate e rovesciate che portano la terra in cielo. Impennate e danze di coppia si succedono mentre l’accelerazione rende difficili anche i movimenti delle palpebre e le braccia sono paralizzate dall’aumento del peso che sale tre, quattro, cinque volte. L’esperienza è unica, indescrivibile per certi aspetti tanto è piena di fisicità. Tranquillizza la voce del comandante che mostra come il jet sappia ritornare da solo nella posizione originale mentre pure il nostro respiro riconquista la normalità.
La pattuglia vola dal 1981 con il jet Alenia Aermacchi MB-339A, una versione particolare del velivolo usato dagli allievi piloti. Prima, e per 17 anni, il protagonista era il Fiat G-91 con le ali a freccia. Ma che cosa è cambiato in mezzo secolo? «Difficile introdurre variazioni», precisa subito il comandante. «Il programma, l’impostazione sono rimasti intoccati: voliamo nella tradizione». Un pensiero corre inevitabile all’estate del 1988 quando uno scontro terribile tra le nuvole di Ramstein, in Germania, faceva vittime nelle Frecce e tra gli spettatori. «Da allora tutte le pattuglie hanno rivisto profondamente le norme di sicurezza», nota Lant, «aiutando noi a volare con maggiori garanzie e il pubblico a essere al riparo da ogni evenienza».
Con quali pattuglie straniere vi trovate meglio? «In cielo c’è il confronto e ognuno pensa a dare il meglio. Ma stiamo bene insieme con gli inglesi, gli svizzeri e anche con i francesi». Le esibizioni rimaste più impresse nella memoria? «A Beirut nel 2004 quando volammo sui palazzi bombardati due mesi prima dagli israeliani. E sentivamo il clima di calore della gente. O a Mosca, l’anno scorso, con seicentomila persone ammassate all’aeroporto che esprimevano entusiasmi difficilmente controllati dai poliziotti».
Dopo mezzo secolo la storia dei “magnifici dieci” continua, offrendo al di là dello spettacolo e delle emozioni un prezioso esempio di capacità di cui essere fieri. È una delle famose “nicchie di valore” che il Paese riesce a preservare e a esibire, nonostante tutto.