Ultimo aggiornamento: 7 Agosto 2020
Giampietro Gropplero racconta
di Alessandro Cornacchini
da 55 anni di emozioni.., a cura di Alessandro Cornacchini, 2015, p. 36
Ho visto una vampata. Ho tirato su. Da rovescio mi sono subito reso conto che era successo qualcosa di veramente grave. Ho chiuso il looping e, con la mia sezione, ho raggiunto subito l’alternato. Le comunicazioni via radio erano concitate, vedevo colonne di fumo che si alzavano da terra. C’è stato un momento di grande disorientamento. Per prima cosa bisognava scendere a terra, e tentare di rendersi conto.
Appena atterrati, abbiamo visto l’aeroplano di Accorsi, e quello di Vivona, il numero 3 e 5, pesantemente danneggiati, sembrava fossero stati colpiti da una granata. Guzzetti, che volava in ala ad Alessio, era disperato, piangeva, come tutti noi del resto. Non c’è voluto molto per capire cosa fosse accaduto, anche perché Guzzetti aveva visto tutto. Il nostro primo pensiero è stato quello di avvisare le famiglie. Siamo andati subito in sala operazioni per trovare un telefono fisso, al tempo non c’erano i cellulari, dovevamo fare presto perché la notizia dell’incidente si sarebbe diffusa rapidamente e volevamo informare direttamente i nostri cari.
È stata dura, più dura man mano che arrivavano le notizie e ci si rendeva conto più compiutamente di cosa fosse accaduto, dei tragici effetti della collisione sul pubblico. Dei tanti morti. Lo choc quasi insopportabile, ma si doveva fare fronte come si poteva alla situazione e trovare l’energia e la concentrazione per tornare a casa. Il volo di rientro a Rivolto è stato terribile. Io avevo Da Forno sul seggiolino posteriore. Abbiamo trovato tutte le famiglie in base; è stato un momento estremamente commovente, devastante.
Come molto difficili e delicati sono stati i giorni e i mesi successivi. Il Reparto era moralmente a pezzi, e, inutile nasconderlo, era “sub judice”. Bisognava reagire.
Dovevamo convincere e convincerci che potevamo farcela. Lavorando duramente, potevamo farcela. Noi, i più anziani, Alberto Moretti, Massimino Montanari, io, ma anche con tutti gli altri, ci siamo guardati in faccia, negli occhi e ci siamo detti: «La Pattuglia non si ferma, dobbiamo tornare subito a volare». E così fu. In casi così difficili è il Reparto che deve trovare al suo interno le risorse e le energie per risollevarsi, è una tradizione tutta aeronautica che trova origine nella tragica esperienza della guerra ma anche nella consapevolezza che il volo è un’attività intrinsecamente rischiosa, che contempla l’eventualità dell’incidente e che questo, quando accade, va metabolizzato, esorcizzato direi. Ci si aggrega intorno al Comandante, ai più anziani, ai piloti di maggiore esperienza, quelli con un carisma robusto, se ci sono. In Pattuglia, per fortuna, c’erano eccome!
Questo è accaduto alle “Frecce” del dopo Ramstein. Il gruppo era a pezzi, convinto però di non mollare e in quella tragica circostanza abbiamo avuto la fortuna di avere tra noi persone eccezionali, di grande sensibilità ed elevatissime capacità tecniche che hanno letteralmente trainato il Reparto fuori dal tunnel, dedicandosi con un enorme spirito di sacrificio al suo recupero, pezzo dopo pezzo, in modo minuzioso… Su tutti Alberto Moretti, Massimino Montanari. La situazione era di una tale gravità da porre in gioco la stessa esistenza del Reparto. Naldini, Alessio e Nutarelli erano delle colonne portanti: la loro scomparsa aveva creato delle voragini, ma questi vuoti andavano colmati, per il rispetto della loro memoria bisognava stringere i denti e andare avanti.
È stato bravissimo Moretti, come capoformazione, a stringere intorno a sé tutto il gruppo non solo nel pesante lavoro di ridisegnare il programma acrobatico, con maggiori garanzie di sicurezza per il pubblico, ma anche a terra nel ricostruire il morale del Reparto, nel riportarlo ad avere fiducia nelle sue possibilità, e nei rapporti, costanti, con le commissioni che i vertici della Forza Armata mandavano a Rivolto ad esaminare e valutare il nostro operato, il nostro percorso per tornare a esibirci.
Massimino, poi, è stato commovente, era sempre in base a parlare e a provare questa o quella manovra, a disegnarla per ore con il gessetto sulla lavagna. È stata durissima.
Poi c’è stato anche l’incidente di Paolo Scoponi, che ha complicato non poco le cose. Sembrava una maledizione. L’incidente di Paolo è stato pazzesco. È avvenuto il 12 dicembre 1988, fra l’altro per me è stato ancora più doloroso perché lui era venuto qui in Friuli con la moglie, il 10 dicembre, un sabato, in occasione di una cena medievale che si teneva a Pordenone a cui eravamo stati invitati. La Pattuglia si stava lentamente riprendendo dallo choc di Ramstein e una delle chiavi di volta pensavamo potesse essere proprio Paolo. Paolo era alla Sperimentale e presentava il “Macchi”. Non avrebbe dovuto fare il solista ma una via di mezzo, di fatto presentare il velivolo. Era bravissimo in questo, molto preciso, e poi avrebbe dovuto prendere il comando. Con le mogli siamo andati lì alla cena, li ho ospitati io, a casa mia, Bruna e Paolo. Lunedì ha fatto il volo che gli è stato fatale. Un’altra mazzata.
L’89 è stato l’anno della ripresa. Abbiamo volato un nuovo programma, inizialmente senza solista, ruolo che ha poi ricoperto Guzzetti, ha preso il comando del Gruppo Lorenzetti, proveniente dal “20°” di Grosseto, ritenuto molto adatto in quella delicata fase di transizione, e avevano ragione! Alla fine, i vertici della Forza Armata si sono assunti la responsabilità di farci tornare a volare in pubblico. E così, volando, facendo quello che sanno fare i piloti, ci siamo piano piano lasciati alle spalle un periodo nerissimo. Guardando avanti, ma senza dimenticare.