Ultimo aggiornamento: 25 Febbraio 2021

Dopo la Grande Guerra sul «prato verde» di Campoformido i nostri piloti da caccia crearono dal nulla un'alta scuola di acrobazia. Eredi diretti di questi primi cultori di una disciplina che è la massima espressione del volo sono oggi gli assi della Pattuglia Acrobatica Nazionale di Rivolto, un «team» che le aeronautiche di tutto il mondo ci invidiano.

di Gabriele Bacchi – foto di Adriano Alecchi e Pippo Procaccioli
da Storia Illustrata, n° 274, settembre 1980, pp. 42 e segg.

Grazie a Sergio V. per l’invio dell’articolo

[ continua ]

Chi sono, dunque, i piloti delle Frecce Tricolori? Perché fanno questo mestiere? Quando di preciso è nata l’acrobazia aerea? Chi ha inventato le varie figure? E che tradizione ha l’Italia in questa disciplina? Per ricostruire questa storia, bisogna tornare indietro di oltre mezzo secolo, risalire ai pionieri del volo.

La prima manovra di acrobazia aerea fu eseguita il 2 settembre del 1913 sul cielo di Juvisy in Francia. Era l’epoca in cui l’aviazione, divorata dalla «febbre del record», stava entrando nei suoi anni ruggenti. I piloti volavano «sempre più in alto e sempre più veloci» (anche oltre i 5.000 metri e perfino… a 125 km orari), ma senza fare assumere ai loro aeroplani un assetto di volo «anormale». Senza sospettare cioè che le loro macchine avrebbero potuto compiere grandi evoluzioni oltre i 20 gradi, oltre quei limiti che i tecnici del tempo ritenevano insuperabili.

Solo uno, quel giorno a Juvisy, era convinto di poter tentare con il suo vecchio Bleriot qualcosa di più. Si chiamava Adolphe Pégoud, era un ex-militare che proprio quell’anno aveva preso il brevetto di pilota. Salì fino a 1.000 metri, si lanciò in picchiata e con una straordinaria cabrata fece compiere all’aereo una mezza volta e poi un’altra. Gli spettatori che furono testimoni dell’impresa raccontarono che il velivolo di Pégoud aveva tracciato nell’aria «una grande S».

L’aviatore, in seguito, perfezionò la manovra fino a completare il cerchio con una «grande volta». A compiere cioè un vero e proprio looping, la prima figura acrobatica, che il pubblico subito battezzò «cerchio della morte».

Ma il «record» dell’aviatore francese, molti anni dopo, sarebbe stato contestato. Secondo i russi, infatti, il primo a compiere un looping fu un loro pilota, il tenente di artiglieria Piotr Nikolajevic Nesterov, che il 13 agosto 1913 (cioè appena 6 giorni prima di Pégoud) impennò il suo aereo oltre i 45° e chiuse la «gran volta» con un raggio di 150 metri. Nella Grande Enciclopedia Sovietica, Nesterov è considerato il fondatore del pilotaggio di alta scuola, l’uomo che continuò a sperimentare voli soprattutto per l’impiego militare.

«La storia purtroppo considera soltanto le aride date», ha scritto Renato Rocchi nel suo libro La meravigliosa avventura. «Nesterov segnò l’atto di nascita dell’acrobazia aerea. Era lo stratega che concepì la manovra acrobatica solo come necessaria per offendere e difendersi dal nemico. Perciò deve essere anche considerato come il precursore dell’aviazione da caccia. Pégoud, invece, diede l’impronta, l’anima a questa nuova disciplina, facendosene predicatore e divulgatore».

Senza dubbio questi due piloti, insieme ad altri oggi dimenticati, sono da considerare i «grandi maestri» del volo. Il clamore delle loro imprese fu però di breve durata. Sotto la paurosa spinta della guerra venne alla ribalta una nuova élite di aviatori che avrebbe fatto compiere un decisivo balzo in avanti alla acrobazia aerea: quella dei piloti da caccia.

L’aeroplano, ultimo miracolo della tecnica, trovò subito un largo impiego su tutti i fronti. Fu migliorato, potenziato, reso più piccolo, più manovriero e trasformato in macchina bellica. Cominciò così l’era dei duelli aerei, il volo divenne, come qualcuno ha scritto, «un gioco mortale». I piloti furono costretti ad affinare in gran fretta la loro preparazione. Per affrontare un combattimento o per sottrarsi a un inseguimento, ora dovevano essere padroni delle, loro «macchine volanti».

L’acrobazia, appena inventata, entrò così nel bagaglio professionale degli aviatori. E fu allora che spuntò un altro «maestro», il tedesco Oswald Boelcke, il primo che intuì l’importanza del «gioco di squadra» e del volo in formazione. Ex insegnante di scuola, tenente dell’esercito imperiale, amico intimo del grande asso Max Immelman (l’Aquila di Lilla, idolo della Germania nel 1915), Boelcke mise a punto nuove teorie sull’impiego dei velivoli.

Quando fu nominato comandante della 2a Jagdstaffen (un reparto in cui volavano piloti destinati in un modo o nell’altro a lasciare tracce vistose: dall’Ussaro Volante Werner Voss, al Barone Rosso von Richtofen, a Ernest Udet, a Herman Goering, futuro maresciallo del Terzo Reich) fissò le sue idee sul combattimento aereo in regole precise e le fece mettere in pratica ai suoi piloti. Ritenuto immortale, Boelcke, morì il 28 ottobre 1916.

Molti sostengono che fu proprio lui a gettare le basi di quella che poi nel dopoguerra sarebbe diventata l’acrobazia collettiva.

All’inizio degli Anni Venti anche gli italiani entrarono in scena.

Tutto cominciò sul «prato verde» di Campoformido, dove il 7 maggio 1923 venne fondato il 1° Stormo Caccia. Una data che avrebbe lasciato il segno nella storia dell’aviazione, perché quel campo, a due passi da Udine, sarebbe diventato nel giro di pochi anni un’autentica «università del volo». Una specie di santuario dell’acrobazia aerea, dove fiorì la leggenda dei «diavoli alati» e vennero create alcune «classiche» figure che ancora sono nel repertorio delle Frecce Tricolori.

Gli inizi, però, furono difficili: per i piloti da caccia il momento non era dei migliori. La fine della guerra provocò infatti una generale smobilitazione. Mentre all’estero si svolgevano le prime esibizioni aeronautiche collettive, e americani, inglesi, francesi avevano già iniziato l’addestramento dei piloti in formazione, la nostra aviazione da caccia continuò a perdere colpi.

Ma a recuperare il tempo perduto ci penserannò proprio i «ragazzi di Campoformido». Rispolverarono tutto il repertorio, le «botte», i trucchi, inventati negli anni di guerra. Raccolsero l’eredità lasciata da assi quali Baracca, D’Urso, Piccio o Baracchini. E in pochi anni inventarono un modo diverso di volare.

Tra loro c’erano veterani coperti di medaglie e tenentini appena usciti dalle scuole militari. Il divario era notevole: tale che i «pivellini», di fronte a tutto l’oro e l’argento dei reduci di guerra, pensavano di non poter brillare e con molta ironia si autodefinirono Famiglia Rame. Giurarono di emularli e ci riuscirono.

La base del nuovo addestramento divenne il volo in coppia. Tutte le mattine, i piloti infilavano i guanti, il caschetto di cuoio, gli occhiali e volavano in qualche angolo del cielo a «fare coppia»: i vecchi lupi insieme alle reclute. Gli incidenti, anche mortali, erano molto frequenti.

I velivoli del 1° Stormo, nei primi anni di attività, erano i Fiat CR 1, piccoli e ottimi biplani, ma poco adatti al volo acrobatico. Durante le evoluzioni, spesso prendevano fuoco e in un attimo si trasformavano in torce volanti.

L’evoluzione fu lenta, però costante. Così fino al 1929, quando arrivò al campo un nuovo comandante: il colonnello Rino Corso Fougier, che in fatto di acrobazia aerea aveva idee molto chiare. Reduce anche lui dalla Grande Guerra, Fougier sottopose i suoi piloti a nuovi metodi di addestramento e i risultati non tardarono a venire.

Una mattina del novembre 1929, due del 1° Stormo, i sergenti Citti e Brizzolari, sbucarono nel cielo dell’aeroporto e infilarono con scioltezza un looping dietro l’altro, volando strettissimi, a poco più di un metro di distanza.

«Fu la prima volta in cui si videro due aeroplani volare così vicini durante una figura acrobatica», ha scritto su quell’episodio il colonnello Vittorio Zardo, ex-capoformazione delle Frecce Tricolori. «Bisogna pensare che fino al 1929 per acrobazia collettiva si intendeva l’esecuzione di figure acrobatiche da parte di più velivoli distanziati fra loro di un centinaio di metri circa».

C’è una storia che meglio di tante altre rievoca il clima di quegli anni. È quella del ponte di Sequals. Stando alle cronache di allora cominciò il giorno in cui Tommaso Diamare, un pilota di grande valore, tornando con la sua formazione da un poligono nella zona del Vivaro, decise di passare sotto l’arcata centrale del ponte. La bravata riuscì al primo tentativo e la mattina dopo l’aviatore ripeté la manovra compiendo un intero looping. Dietro di lui, tutti gli altri della pattuglia fecero altrettanto.

Da quel momento, malgrado i divieti e le punizioni dei superiori, il ponte di Sequals (nel 1932, sotto quelle arcate, Diamare ci lasciò la vita) divenne il centro della «gran ruota», una specie di giro della morte o di battesimo dell’aria per i ragazzi di Campoformido.

«In quegli anni», ha rievocato il colonnello Rocchi, «non passava giorno che un gruppo o una squadriglia non presentasse una novità, una figura acrobatica inventata, provata e riprovata di nascosto sul greto del Tagliamento o sulla spiaggia di Lignano, per non essere visti da occhi indiscreti. Poi seguiva la presentazione sull’aeroporto alla presenza del comandante».

Dal volo in coppia, si passò a formazioni di 4, 7, 9 velivoli. Due figure oggi notissime, vennero inventate in quel periodo: il tonneau lento e la bomba, inizialmente eseguita da 5 CR 20 che in formazione a cuneo si lanciavano in picchiata simulando un attacco al suolo.

La grande occasione per dimostrare agli «alti papaveri» di Roma i progressi compiuti dal 1° Stormo, si presentò l’8 giugno del 1930 a Roma, durante il Primo Giorno dell’Ala. Sul campo di Ciampino, davanti a una gran massa di gente, si esibirono ben. 300 aeroplani. Prima decollarono «solisti» di fama mondiale come Gerhard Fheseler e De Bernardi, poi «pattuglioni» di CR 20 in varie formazioni. Quindi toccò ai piloti di Campoformido che chiusero il programma proprio con la bomba, ripetuta tre volte, con una scenografia di grande effetto, perché al loro attacco al suolo una carica di dinamite comandata a distanza fece esplodere le sagome di alcuni automezzi militari. Italo Balbo, allora sottosegretario dell’aeronautica, che sempre aveva preferito occuparsi dei suoi idrovolanti anziché dei caccia, dovette ricredersi sulla utilità della acrobazia in combattimento.

Il 1930 segnò l’inizio di un vero boom per il volo acrobatico. Ogni stormo volle una propria pattuglia. Dopo il 1°, fu la volta del 4°, quello di Remondino, costituito proprio nel 1930. Due anni dopo all’aeroporto di Bresso, vicino a Milano, fu creato il Nucleo Alta Acrobazia per addestrare i piloti da caccia. In seguito, anche il 6°, il 2°, e il 53° ebbero la loro pattuglia.

Con l’assegnazione dei nuovi biplani Breda 19, aerei particolarmente indicati per l’acrobazia, si formò a Campoformido la Pattuglia Folle, rimasta famosa per aver definitivamente lanciato la «moda» del volo rovescio. Era una squadra di 9 elementi che a ogni esibizione, eseguiva un «volo folle», «un passaggio in linea con velivoli messi a sghimbescio».

Allora c’erano anche piloti, quelli della Pattuglia Rovescio, che compivano tutto il loro programma volando a testa in giù.

In una parola, negli Anni Trenta, questa specialità aviatoria cominciò a fare spettacolo. La Seconda Guerra Mondiale accelerò paurosamente il progresso in campo aeronautico. Dai velivoli a elica si passò a quelli a reazione. E si ripeté in sostanza ciò che si era verificato alla fine della Grande Guerra: gli italiani, privi dei nuovi velivoli, persero del tempo prezioso.

I pionieri

Disegni d’epoca di due storici «looping»: la prima figura acrobatica: la manovra eseguita dal russo Piotr Nikolajevic Nesterov nel 1913; la «grande volta» dell’aviatore francese Adolphe Pégoud.

Il colonnello Rino Corso Fougier, un «grande» della acrobazia aerea italiana. Nel 1929 comandava il 1° Stormo Caccia a Campoformido (Udine), che divenne una vera e propria «università del volo» – L’aeroporto di Campoformido in una foto di 50 anni fa.

Una rarissima immagine di un piccolo biplano in volo sotto le arcate del ponte di Sequals, sul Tagliamento. Questa pericolosa evoluzione divenne una specie di «battesimo dell’aria» per i piloti di Campoformido che sotto quelle volte compivano un «cerchio della morte».

I cinque «assi» del 1° Stormo Caccia che nel 1930, sul campo di Ciampino, in occasione del Giorno dell’Ala, eseguirono per la prima volta la spettacolare figura della «bomba». I piloti, da sinistra a destra, sono: Scarpini, Melandri, Neri, Diamare e, ultimo, De Giorgi.

Una foto che risale agli anni ruggenti della nostra aviazione. Mostra una pattuglia di CR che esegue un looping in linea di fronte sugli stabilimenti Fiat di Torino – Breda 19, in formazione a «cuneo».

Una compagine di CR 20 impegnati in una difficile manovra – Vittorio Emanuele III assiste ad una manifestazione aviatoria a Ciampino nel 1930. Alla sua destra, re Alberto del Belgio e re Boris di Bulgaria.

Un pattuglione di Fiat CR 32 in formazione «cinese» – Analoga evoluzione di una pattuglia italiana sulla baia di Rio de Janeiro nel 1937. In quell’anno la nostra aeronautica mandò 2 squadriglie, del 1° e 53° Stormo, a compiere una lunga crociera nell’America Latina.

La leggendaria «Pattuglia Folle» di Campoformido.
Nel suo repertorio figurava, tra l’altro, anche un passaggio in linea con gli aerei messi a sghimbescio: una figura che venne chiamata «volo folle» e che diede il nome alla celebre compagine. Partiti in ritardo rispetto agli americani e agli inglesi, gli italiani in questa disciplina rimontarono in fretta il tempo perduto e fecero compiere alla acrobazia collettiva un poderoso balzo in avanti.

Dopo il 1930, quando i responsabili della nostra aeronautica si convinsero che queste nuove esperienze di volo potevano essere utili anche in campo militare, si assistette da noi a un vero e proprio boom della acrobazia. Quasi ogni stormo finì per avere una sua pattuglia. Oltre al 1°, e al 4°, anche il 6°, il 2° e il 53 °, crearono loro formazioni che parteciparono a manifestazioni aeree (allora di gran moda) un po’ in tutta Europa.

Alcune delle più classiche figure geometriche che venivano eseguite dai pattuglioni di biplani negli Anni Trenta – Aerei del 4° Stormo (un altro reparto cui l’acrobazia deve molto) in volo rovescio sull’aeroporto di Gorizia.

Gli aerei delle prime pattuglie

Fiat CR 1. Primo aereo usato per acrobazia collettiva, progettato dall’ingegner Rosatelli. Lungo m 6,25, ali 8,95, km/h 270.

Fiat CR «Asso». Notissima versione del CR 20 con motore Isotta Fraschini. Potente e sicuro, raggiungeva la velocità di 250 km/h.

Fiat CR 20. Con questo biplano, i piloti del 1° Stormo compirono le prime esibizioni in pubblico. Toccava i 270 km/h.

Fiat CR 32. Eccezionale caccia, progettato da Rosatelli. Esordi nel 1933 e rimase in linea fino al 1939. Velocità 375 km/h.

Breda 19. Aereo straordinario, molto adatto per l’acrobazia. Apertura d’ali m 9, lunghezza m 6,60 e velocità 210 km/h.

Fiat CR 42 «Falco». Nel 1939 sostituì il CR 32 e fu subito impiegato in guerra. Robusto e maneggevole, toccava i 430 km/h.

Quando vennero consegnati alla nostra aeronautica gli aerei a reazione, lo Stato Maggiore impose un Criterio a rotazione: ogni aerobrigata avrebbe dovuto fornire rappresentative acrobatiche nazionali.

La prima del dopoguerra fu quella del Cavallino Rampante, che esordì con i Fiat Macchi DH 100. Venne creata nel 1950, con 5 elementi, e di lì a poco fu dotata di reattori americani Sabre, gli stessi che proprio in quell’anno si affrontavano sui cieli di Corea con i temibili Mig.

«Negli anni ruggenti, quando si volava con aerei a elica, c’erano uomini che creavano da niente il mito, che facevano cose straordinarie con macchine imperfette», rileva il colonnello Rocchi. «Nel dopoguerra cambiò tutto, perfino la mentalità dei piloti. Vennero inventate altre figure di gran classe, anche perché la potenza dei nuovi aerei era diversa».

Tre anni dopo la nascita del Cavallino Rampante fu la volta dei «4 del Getto Tonante», una pattuglia modellata sul tipo di quella americana degli Skyblazers.

Sempre in 4 e ancora con i Thunderjet, aerei a forma di Croce di Malta, continuarono a esibirsi le Tigri Bianche.

Poi in una seconda versione di 5 elementi, tornarono i piloti del Cavallino Rampante della 4a aerobrigata, che iniziarono a fare decolli e atterraggi in formazione.

Si passò a 7 velivoli con i Diavoli Rossi che volavano su F 84 F e per la prima volta si esibirono negli Stati Uniti, misurandosi con i Blue Angels dell’US Navy, i Tiger e i Thunderbirds dell’US Air Force.

Negli ultimi due anni prima della nascita delle Frecce Tricolo-ri, i portabandiera dell’aeronautica italiana furono i Lancieri Neri su F 86 E (che andarono per la prima volta in Inghilterra, patria dei famosi acrobati del 111° Squadron).

E infine, ricomparvero i Getti Tonanti che eseguirono la bomba verso l’alto e inventarono il doppio tonneau.

«Da allora a oggi il volo è rimasto lo stesso. Però le macchine degli Anni Cinquanta erano più grandi e quindi più impegnative», ricorda Vittorio Cumin, uno dei Diavoli Rossi, dal 1963 al 1967 capoformazione della PAN e ora comandante dell’aeroporto di Campoformido. «Noi volavamo in 6 e curavamo molto la prospettiva. Gli americani ci invitarono a casa loro, ci prestarono gli aerei e li verniciarono con i nostri colori. Facemmo una vera e propria tournée in varie città, da Phoenix, a Las Vegas a New York. I giornali ci dedicarono titoli a tutta pagina. A Long Island vennero a vederci con il naso all’insù ben 500.000 persone».

«Da quando la PAN è diventata l’unica formazione ufficiale ed è stato abolito il sistema a rotazione, giudicato troppo costoso, la professionalità dei piloti è aumentata», rileva il colonnello Danilo Franzoi, dal 1968 al 1973 capoformazione delle Frecce Tricolori e ora comandante dell’aeroporto di Aviano. «La no-stra scuola acrobatica, anche rispetto a quella dei nordici, si distingue nettamente».

In quasi venti anni di vita la PAN ha dunque consolidato il prestigio delle altre formazioni che l’hanno preceduta fino a diventare un «team» di punta in campo mondiale. Se si pensa che mediamente ogni anno partecipa a circa 40 manifestazioni, di cui 7 o 8 all’estero, in totale ha compiuto qualcosa come 800 missioni.

A Campoforinido, nella tavernetta attigua alla mensa ufficiali e nella palazzina comando, sono esposti tutti o quasi i trofei di questi due decenni di attività: medaglie d’oro, coppe, piatti d’argento, targhe e perfino manifesti di vari «air-show» con le firme dei colleghi stranieri.

«Una cosa curiosa che forse il grande pubblico non sa», aggiunge il colonnello Rocchi, «è che i piloti delle Frecce Tricolori, tutti italiani e quindi in teoria latini per temperamento, sono cultori di una forma di acrobazia così rigorosa, scientifica, che nulla concede alla scenografia d’effetto, alla spettacolarità gratuita delle figure. Mentre per esempio gli inglesi, che sono nordici, e quindi in teoria più compassati e metodici, volano più alla garibaldina. In altre parole, la nostra scuola cura più la geometria delle figure. Quella inglese, invece, di altissimo livello, tende più platealmente ad accontentare il pubblico».

Se la Pattuglia Nazionale Acrobatica si è fatta questa reputazione e ha conseguito tanti successi, molto lo si deve anche a coloro che lavorano dietro le quinte del palcoscenico di Campoformido. Vale a dire agli «specialisti» (cioè ufficiali tecnici, motoristi, montatori, marconisti, elettromeccanici di bordo, armieri) a cui è affidata la manutenzione e la revisione dei «G 91», aerei docili, maneggevoli, ritenuti competitivi, ma che hanno ormai 19 anni di vita. Dal loro lavoro dipende la buona riuscita delle manifestazioni. Gli aerei sono infatti macchine molto sofisticate. Anche se perfetti hanno bisogno di diagnosi e cure continue.

«Il trinomio, pilota, macchina, specialista, è spesso sottovalutato, ma è di fondamentale importanza, soprattutto quando si va in trasferta», fa notare il capitano Gianfranco Da Forno, responsabile delle pubbliche relazioni della PAN. «All’ultimo momento ci può essere sempre qualche piccolissimo guasto da individuare. Per la messa a punto dei velivoli la collaborazione tra pilota e specialista deve essere costante. E infatti lo è, al punto che non si riesce a capire chi ama più il velivolo, se chi lo guida o chi lo ha in cura».

A quasi cinquant’anni di distanza dalle prime «capriole» di Pégoud e Nesterov, l’acrobazia aerea è arrivata a livelli altissimi. La vecchia arte del volo è diventata una scienza codificata. C’è chi sostiene che oltre questi limiti non si può andare. Che non si possono inventare nuove figure. Anche perché le ultime macchine, sempre più potenti e più appesantite per esigenze belliche, meno si prestano alla acrobazia. Secondo alcuni esperti, a questo punto, si possono solo perfezionare le figure, assemblarle in modo diverso tra loro.

Forse è vero, ma in ogni disciplina il futuro ha riservato sempre grandi sorprese. Una cosa però è certa. Oggi come ieri l’esperienza di questo tipo di volo è fondamentale per l’addestramento dei piloti. Ne è una riprova il fatto che quando le Frecce Tricolori sono impegnate nel volo operativo, ottengono sempre risultati altissimi. Al poligono, durante le prove di bombardamento, mitragliamento, lancio di razzi, napalm o altro, fanno centro al primo colpo.

Ma, a parte le esperienze che si possono trasferire in campo militare, l’acrobazia è la chiave migliore per valutare le capacità e la tecnologia degli aerei.

«Senza volo acrobatico», sostengono a Rivolto, «non si può essere in grado di apprezzare le macchine in tutta la loro versatilità».

Ogni volta che si può decollare i piloti delle Frecce Tricolori si alzano in cielo. Provano e riprovano le loro figure. Anche se percorrono lo stesso astratto circuito nell’aria, per loro ogni volo è diverso. Cambiano le condizioni meteorologiche, i punti di riferimento, e perfino gli aerei, perché c’è quello che tira più a sinistra e quello che invece tira più a destra. Quando atterrano, hanno la tuta inzuppata di sudore per la tensione e la fatica.

Anche se continuano a ripetere che il rischio è calcolato, in loro la paura è sempre in agguato. Chiedere perché fanno tutto questo non ha senso. Rispondono che il loro mestiere non è difficile, che alla lunga è come qualsiasi altro. La molla che li spinge a fare tutto ciò è quella più antica: la passione del volo nel sangue. Il bisogno quasi fisico di sentirsi padroni di una macchina fantastica e signori del cielo.

Le pattuglie acrobatiche degli Anni Cinquanta.

I Vampire DH 100 del Cavallino Rampante della 4° Aerobrigata, il primo «team» del dopoguerra che inaugurò da noi l’era del volo acrobatico su aviogetti

Le Tigri Bianche della 51° Aerobrigata con gli F 84 G. Leader di questa formazione, in attività nel 1955-1956, era l’allora capitano Roberto Di Lollo.

Gli emblemi delle varie pattuglie acrobatiche

Un passaggio dei Thunderjet a forma di Croce di Malta, dei «4 del Getto Tonante» (anni 1953-1955).

I Lancieri Neri della 2° Aerobrigata in posa davanti a un loro F 86 E. Nel gruppo, il pilota, in piedi, è il comandante Nencha. I Lancieri andarono a esibirsi per la prima volta anche in Inghilterra.

I Diavoli Rossi in volo «a bastone» con gli F 84 F sul lago di Garda. Portabandiera della acrobazia italiana dal 1957 al 1959, i «Diavoli» (guidati dall’allora capitano Mario Squarcina) furono invitati ad esibirsi anche negli USA.

Un decollo ala contro ala degli F84 G dei Getti Tonanti, seconda versione. Questa formazione che fu l’ultima degli Anni Cinquanta, inventò una nuova figura: il doppio tonneau. Volò nel 1959 e 1960, poi fu creata la Pattuglia Acrobatica Nazionale.

Gli F 86 E della seconda compagine del Cavallino Rampante, mentre staccano le gomme da terra. I piloti con il glorioso emblema di guerra di Baracca dipinto sulla carlinga tornarono alla ribalta nel 1956 e 1957.

Le livree degli aviogetti

Fiat Macchi DH 100 del Cavallino Rampante (1950). Intercettore: lungo m 9.4, ali m 11,5, 880 km/h.

Republic F84G Thunderjet dei Getti Tonanti (1953). Bombardiere: ali m 11,40, lung. m 11,50, km/h 1020

F 840 delle Tigri Bianche (1955). Aereo impiegato da 2 famosi team USA: Skyblazers e Thunderbirds.

N.A. F86E Sabre del Cavallino Rampante (1956). Intercettore: lungo m 11,43, ali m 11,30, km/h 1086.

Republic F84F Thunderstreak dei Diavoli Rossi (1957). Bombardiere: lungo m 11.50, ali m 11,40, km/h 1123.

F86E dei Lancieri Neri (1958). Come gli F84F aveva ali a freccia, ritenute più adatte per il volo acrobatico.

F84F dei Getti Tonanti (1959). Potente e maneggevole, colse molti successi in campo acrobatico.

F86E delle Frecce Tricolori (1961). La PAN ha volato per due anni su questo aereo, poi è passata sui «G91».

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