(Ultimo aggiornamento: )

da Augusto Petrini, Confesso che ho volato, 2005, pp. 96 – 110

Una trasvolata atlantica con così tanti aeroplani non si era vista dai tempi della crociera del ventennale di Italo Balbo.

Nel luglio 1986, 12 MB 339 PAN, accompagnati da un C130, con il personale tecnico, i bagagli ed il materiale per la manutenzione e da due Atlantic (solo per la parte su mare), hanno attraversato l’oceano Atlantico in formazione, per una turnè di due mesi in Canada e Nord America.

Non è stata un’impresa da poco, anche considerando il progresso tecnologico dei velivoli, rispetto ai Savoia Marchetti S 55 utilizzati da Balbo. Intanto quelli erano bimotori e poi erano idrovolanti, quindi in caso di problemi tecnici potevano ammarare. Inoltre, quello era ancora un periodo pionieristico dell’aviazione e l’eventuale perdita di equipaggi lungo la rotta era considerato un rischio accettabile.
Noi non la vedevamo certo allo stesso modo.

È stata, quindi, un’operazione, pianificata, preparata ed eseguita in modo estremamente accurato, intanto per ridurre al massimo i rischi per gli equipaggi, e poi per consentire a dei velivoli monomotori, non progettati certo per le trasvolate oceaniche, di raggiungere il continente nord americano.
La preparazione ha riguardato i piloti, i velivoli, le predisposizioni per il soccorso in mare e la rotta per la traversata.

I piloti

La preparazione dei piloti ha riguardato essenzialmente l’addestramento alla sopravvivenza in caso di lancio in mari freddi. Infatti la rotta, di cui dirò più in dettaglio più avanti, per minimizzare i tratti di mare, passava vicino al circolo polare artico.

Tutti i piloti dell’Aeronautica Militare frequentano vari corsi di sopravvivenza in mare ed in montagna. In questi corsi si imparano e si mettono in pratica le tecniche di sopravvivenza in ambienti ostili, quali, ad esempio in montagna, la costruzione di vari tipi di rifugi per ripararsi dal freddo. Ricordo che, al mio primo corso di sopravvivenza, quando frequentavo il primo anno dell’Accademia Aeronautica, mi fecero costruire un igloo con la neve pressata, nel quale poi passai la notte con alcuni compagni, usando il paracadute come letto.

Anche per quanto riguarda il mare si fanno molte esercitazioni, per addestrarsi ad usare il battellino di salvataggio, compreso nel seggiolino eiettabile dei velivoli da caccia e tutti i materiali di sopravvivenza inseriti nel giubbino “Secumar” in dotazione al pilota.

Tra questi materiali, oltre a radio d’emergenza, razioni di cibo e di acqua, bengala e fumogeni per segnalazioni, lenza per pescare ed altro, è interessante una specie di pallone di plastica gonfiabile che permette, con il sole, di distillare l’acqua del mare e di ricavarne acqua potabile (molto lentamente).

Tuttavia, per tornare alla nostra storia, in Italia, per la posizione geografica e per il clima, non possediamo l’esperienza ed i materiali specifici per sopravvivere nei mari artici. Per questo, per la preparazione della nostra missione ci siamo rivolti alla Royal Air Force.

Nella cittadina di Plymouth, sulla costa a sud dell’Inghilterra, c’è un centro specializzato per l’addestramento alla sopravvivenza in mari freddi, lì siamo andati per frequentare un corso di una settimana.

Il primo contatto con l’installazione, il pomeriggio del nostro arrivo, non è stato dei migliori; la cena piuttosto scadente, anche considerando il già basso livello della cucina inglese. Gli alloggi, pur se in camere singole, come previsto per gli Ufficiali, erano ricavati in baraccamenti prefabbricati ed erano piuttosto spartani.

Tuttavia, la mattina dopo una sorpresa ci ha riconciliato con l’ospitalità inglese.

Un’ora prima dell’orario d’inizio del corso, sento bussare alla porta e pensando che potesse essere uno dei colleghi, che magari aveva bisogno di qualcosa, ho aperto senza badare al mio abbigliamento, per fortuna nell’alloggio faceva freddo ed ero quindi abbastanza presentabile, perché alla porta c’era una giovane sergente della RAF con una tazza di tè caldo.
Poi abbiamo saputo che il tè in camera al mattino è il trattamento normale per gli Ufficiali inglesi. In Italia le cose sono un poco diverse, ma non lamentiamoci troppo, noi mangiamo molto meglio.

Il corso è stato molto simile a quelli già fatti in Italia, tuttavia abbiamo avuto modo di provare in condizioni reali, cioè in mare molto freddo, anche se non artico, la speciale tuta che avremmo indossato per la trasvolata.

La tuta è la MK10, è in dotazione anche nella nostra Aeronautica Militare per i Reparti Volo che operano molto su mare, ma non avevamo mai avuto occasione di provarla nelle condizioni per le quali è stata progettata.

La tuta è fatta di un tessuto telato impregnato di neoprene, le gambe terminano con dei calzari di neoprene sottile, per poter calzare i normali stivali da volo. Infatti, la MK10 non è aderente come le mute dei sommozzatori, ma è larga per essere indossata sopra la tuta da volo. Al collo ed ai polsi ci sono dei collarini di neoprene costituiti da cerchi concentrici, che si possono staccare per adattare la tuta al collo ed ai polsi del pilota. L’apertura deve essere abbastanza stretta da garantire la tenuta all’acqua, ma, ovviamente, non tanto da soffocare il pilota. È, in ogni caso, piuttosto poco confortevole, specialmente se indossata per ore, come abbiamo fatto noi.

Per indossarla c’è un’apertura diagonale sul petto, chiusa da una cerniera, anch’essa gommata.

Indossarla è un’operazione tutt’altro che semplice, con movimenti quasi da contorsionisti e le prime volte c’è stato bisogno di aiutarci l’un l’altro. Inoltre, indossata sopra la tuta da volo e relativa sottotuta e dopo aver indossato sopra anche il giubbino “secumar”, che, comprendendo il salvagente che si gonfia automaticamente al contatto con l’acqua, più varie tasche con i materiali di sopravvivenza, è già da solo, abbastanza ingombrante. Alla fine ci si sente come il famoso omino della pubblicità della Michelin.

Tuttavia un dato che è stato molto enfatizzato dai nostri istruttori, ci ha fatto sopportare pazientemente ogni inconveniente: cadendo in mare con temperature vicine allo zero, senza una protezione adeguata, come la nostra MK10, la sopravvivenza è inferiore al minuto.

Per finire la descrizione di questa tuta, una curiosità.
Dovendo essere indossata anche per voli piuttosto lunghi, la tuta è stata pensata anche per eventuali necessità corporali, però solo di tipo liquido.
La possibilità era, però, più teorica che pratica, c’era infatti un’apertura orizzontale chiusa da una cerniera gommata, larga circa 10 centimetri, all’interno della quale c’era una manica di neoprene sottile arrotolata lunga una cinquantina di centimetri……
Una volta poi raggiunto l’interno attraverso questa apertura, c’era ancora la tuta da volo, la sottotuta termica e la biancheria intima. Insomma una sorta di percorso ad ostacoli, tale da sconsigliare decisamente il tentativo, a meno di reale emergenza idrica.

Come tutti i corsi di sopravvivenza, già frequentati prima, il culmine dell’addestramento è stata la prova pratica finale nella quale siamo stati buttati in mare, credo che fosse gennaio o febbraio e l’acqua era gelida, e dopo circa un’ora siamo stati recuperati da un elicottero del servizio di soccorso.

Il nostro equipaggiamento era quello che avremmo avuto a bordo dei nostri aerei: il battellino monoposto, collegato al seggiolino eiettabile ed il giubbino “secumar”, che come ho già accennato, ha intorno al collo due salvagente, che grazie ad una pastiglia idrosolubile, al contatto con l’acqua si gonfiano e sostengono il pilota in superficie. I due salvagente sono fatti e messi in modo tale da mantenere la testa del pilota eretta e fuori dall’acqua anche in caso di incapacitazione. Inoltre, sempre automaticamente, quando si gonfiano i salvagente, si libera anche l’antenna della radio d’emergenza, che si attiva ed inizia a trasmettere un segnale di allarme che consente anche di localizzare il pilota.
Ovviamente indossavamo la nostra MK10.

Lo scopo della prova pratica era di farci provare, nelle condizioni il più possibile realistiche, le azioni da compiere dopo il lancio.
Prima tra tutte il tirarsi fuori dall’acqua, infatti la tuta da sola non basta, dopo un certo tempo il freddo inizia a penetrare, specialmente attraverso la testa. Allora la prima cosa da fare, appena in acqua, è di recuperare il battellino, tirando la fettuccia di nylon lunga circa 7 metri con la quale è assicurato a noi.
Sembra una cosa ovvia, ma gli istruttori ci hanno raccontato di un pilota che, sotto choc dopo il lancio, non si è ricordato della fettuccia ed ha cercato invano, per il vento che lo spingeva via, di raggiungere il battellino a nuoto ed è morto per il freddo e per lo sfinimento.
Una volta afferrato il battellino ed averlo gonfiato azionando la bomboletta di CO2 (questa non è automatica), bisogna salirci sopra, anche questa è una cosa non facilissima, impediti nei movimenti da tutte le cose che indossiamo e specialmente dai due salvagente intorno al collo.

C’è una tecnica ben precisa che è bene provare, prima di doverlo eventualmente fare i mezzo ai ghiacci artici. Un pò come è meglio provare a montare le catene da neve nuove, nel nostro garage, prima di doverlo fare in un metro di neve.
La tecnica è di afferrare con entrambe le mani l’estremità più sottile del battellino, che è di forma ellittica con un’estremità più alta dell’altra, e di tirarselo sotto la pancia. Una volta sopra ci si può girare sulla schiena ed iniziare a svuotarlo dell’acqua.

Quella volta avevo fatto per bene tutte le operazioni descritte ed avevo trascorso un’oretta a giocare con tutto il materiale a disposizione, in particolare i vari dispositivi di segnalazione ai quali ho già accennato, peccato che non c’era il sole con il quale avrei potuto abbagliare con lo specchietto i miei compagni di avventura.
Finalmente arrivò l’elicottero ed iniziò le operazioni di recupero. Per alcuni dei piloti che potevo vedere nelle mie vicinanze, il recupero avveniva nel modo standard nel caso di piloti isolati, vale a dire: l’elicottero si posizionava in “hovering” sopra il battellino ed un aerosoccorritore si calava con un verricello ed una sorta di ciambella che era fatta passare sotto le ascelle del pilota, poi entrambi venivano tirati su.

Quando venne il mio turno, però, decisero di cambiare metodo e di simulare il recupero, anche se ero solo, di un gruppetto di naufraghi da un battellino pluriposto.
Non fu una buona idea.
Per questo recupero l’elicottero si posò sull’acqua, per poter tirare a bordo velocemente i naufraghi, ma non essendo proprio un mezzo anfibio, si sosteneva comunque con il suo rotore, creando, quindi, una forte corrente d’aria turbolenta tutt’attorno. Così che, quando l’elicottero si avvicinò per recuperarmi, fui soffiato via con il mio battellino e fatto rotolare più volte come un foglietto di carta.
Poi, finalmente, riuscirono a tirarmi fuori dall’acqua, tra le risate dei compagni già a bordo.

I velivoli

Gli Aermacchi MB339 PAN sono degli ottimi velivoli da addestramento e si sono dimostrati ottimi anche per l’impiego con la Pattuglia Acrobatica per le eccellenti doti di volo.
Sono anche velivoli robusti ed affidabili e di semplice manutenzione; non sono, però, stati progettati per voli di lunga durata, non necessari per il loro tipo d’impiego.
La preparazione dei velivoli è stata, quindi, rivolta a metterli in grado di volare abbastanza a lungo, intervenendo sull’autonomia di volo e, solo su alcuni, sugli strumenti di navigazione.

L’Aermacchi ha allestito, appositamente per questa missione, dei serbatoi di estremità alare più grandi di quelli standard, con la capacità di 510 litri. Con i “Pylon” sub alari ed il serbatoio interno la capacità totale era così di.2500 litri di carburante, sufficiente per circa 4 ore di volo ad alta quota. Durante l’effettuazione della trasvolata, l’autonomia si è dimostrata più che sufficiente, tranne per una tratta, della quale dirò più avanti, quando siamo atterrati con il carburante agli sgoccioli.

Per la navigazione il velivolo è dotato di un sistema detto di “navigazione d’area”, che consente di costruire una rotta, usando informazioni di direzione e distanza trasmesse da radio assistenze alla navigazione posizionate a terra. Il sistema è abbastanza preciso finché si resta nel raggio d’azione delle stazioni a terra, quando, invece, si vola fuori da tale raggio, per un certo tempo la precisione rimane accettabile, perché il computer effettua una navigazione stimata considerando il vento rilevato fino ad allora, poi, progressivamente degrada.

La portata di queste radio assistenze dipende dalla quota, perché la propagazione avviene per linea ottica, ma può arrivare ad un massimo di circa 150 miglia nautiche, meno di 300 chilometri.

Volando su territori aeronauticamente evoluti, come Europa e Nord America, la rete di stazioni di terra è così fitta che, a meno che non si voli a bassissima quota, si è sempre coperti da qualche radio assistenza.
Volando sull’oceano, invece, è necessario un sistema di navigazione inerziale, come hanno tutti i velivoli di linea, che è completamente indipendente da stazioni di terra. Anche il GPS va bene, ma nel 1986 ancora non si usava.

Allora per consentire alla formazione, almeno una limitata capacità di navigazione di lungo raggio, alcuni velivoli furono dotati di “ADF”.
L’ADF è una radio assistenza, anch’essa basata su stazioni di terra, ma che utilizza onde elettromagnetiche a bassa frequenza, che hanno la proprietà di propagarsi per riflessione e di seguire la curvatura della superficie terrestre. Hanno quindi portate molto elevate, a scapito, però, della precisione e senza indicazioni di distanza.
In pratica non sono dei sistemi molto affidabili, anche perché il tipo di radiofrequenza che usano è emesso in abbondanza anche dai “cumuli nembi” (vedi “cumulo nembo”) e, spesso, se si vola nelle vicinanze di temporali, lo strumento di bordo viene deviato da questi.

Allora la navigazione vera la facevamo grazie all’C130 che ci accompagnava, il quale era dotato di un sistema “TACAN” aria-aria, cioè di una radio assistenza simile a quelle di terra, ma portatile, che ci consentiva, usando il nostro normale sistema di bordo, di seguire la rotta basandoci sulla sua posizione. Il C130, ovviamente, fornito di capacità di navigazione di lungo raggio, ci precedeva lungo la rotta, decollando prima di noi, ma restando sempre entro la portata del “TACAN” aria-aria.

Per finire con la preparazione dei velivoli, devo citare anche il lavoro svolto dal personale tecnico, durante tutto l’anno precedente la missione, per portare tutti i 12 velivoli alla data di partenza con le manutenzioni principali fatte.

Normalmente queste manutenzioni sono eseguite a rotazione secondo un programma ben preciso, allo scopo di avere sempre 11 velivoli, su 13, disponibili.
In questo caso invece, il programma manutentivo è stato variato, appunto per poter disporre contemporaneamente di 12 velivoli per il periodo previsto di due mesi.
Alcuni di questi interventi, infatti, comportano il fermo del velivolo per uno o due giorni e richiedono attrezzature che non è possibile portare al seguito.
Il lavoro è stato eseguito in modo eccellente, anche per quanto riguarda la manutenzione ordinaria giornaliera, tanto che, alla fine della missione si è avuta un’efficienza del 100%.

Predisposizioni per il soccorso

Come accennato all’inizio di questo racconto, la sicurezza degli equipaggi era la prima priorità della missione, il primo passo è stato quello dell’addestramento dei piloti, il secondo è stato quello di predisporne il recupero nel malaugurato caso di lancio nel mare artico.

Oltre al C130 che precedeva la formazione, solo per l’attraversamento dell’oceano, c’erano anche due velivoli Atlantic che invece la seguivano.

L’Atlantic è un velivolo bimotore turboelica, impiegato per la ricerca e la caccia ai sommergibili. Per questo ha un’autonomia che gli permette di operare a bassa quota sul mare anche per 12 ore ed ha a bordo dei sistemi e dei sensori molto sofisticati, per rilevare la presenza dei sommergibili in immersione ed in grado anche di vederne il periscopio, se eretto fuori dall’acqua.
Tutte queste caratteristiche ne fanno, quindi, un ottimo mezzo anche per la ricerca di naufraghi.
Tuttavia, non è un velivolo anfibio, quindi anche dopo aver localizzato il battellino, non è in grado di recuperare il pilota. Gli Atlantic, quindi, avevano il compito di localizzare il pilota e di comunicarne la posizione al servizio di ricerca e soccorso più vicini o a qualche eventuale nave che si trovasse nelle vicinanze, per il recupero. Inoltre avevano a bordo dei battelli gonfiabili più grandi di quello monoposto in dotazione all’MB339, con del materiale di sopravvivenza supplementare, da lanciare vicino al pilota per metterlo nelle migliori condizioni per un’attesa che, nel caso più sfortunato, poteva essere anche di diverse ore.

La rotta

La rotta seguita è stata: da Rivolto a Hopsten in Germania, a Leuchars in Scozia. Poi per la traversata atlantica: da Leuchars a Keflavik, in Islanda, a Sounderstrom in Groellandia, quindi a Frobisher Bay, in territorio canadese.

La scelta della rotta, in particolare la parte su mare, è stata il risultato di uno studio molto accurato che ha tenuto conto anche dei venti statistici degli ultimi anni.

La rotta è stata scelta secondo due criteri principali, anche se in parte contrastanti: il primo era quello di avere i tratti su mare più brevi possibile, perché, pur con l’accresciuta autonomia, gli MB339 non sono comunque diventati velivoli da lungo raggio; il secondo, invece, era quello di tenersi possibilmente nelle vicinanze di qualche terra, sempre nell’ottica della sicurezza, per avere soccorsi più solleciti in caso di lancio. Questo ha comportato, come detto, in contrasto con il primo criterio, il percorrere, nella tratta da Leuchars a Keflavik, che era poi la più lunga, una distanza maggiore di quella diretta dalla base di partenza e quella di arrivo.

Questa, durante il volo di andata, non si è rivelata una buona scelta, perché ci ha portato all’atterraggio, tutti in emergenza carburante.
Vediamo come è andata.

Come detto, avevamo analizzato i venti statistici che sono stati rilevati nella zona negli ultimi anni (credo che siamo andati indietro di 5 anni), sulla base di questo studio, si è stabilito che si poteva, con la nostra autonomia, allungare un poco la rotta per passare più vicino alle isole Faroe, pur mantenendo all’arrivo un’adeguata riserva di carburante. Questo per le considerazioni di sicurezza fatte prima.

Purtroppo i venti statistici considerati erano, appunto, venti statistici, vale a dire venti medi e quel giorno si sono rivelati considerevolmente superiori alla media, ovviamente in senso contrario alla nostra rotta.

Quando, durante la navigazione, ci siamo resi conto che il consumo era superiore a quello previsto, c’era ancora la possibilità di tornare indietro, ma il Comandante ha deciso comunque di continuare, perché la riserva di carburante calcolata in pianificazione era sufficiente anche per coprire questa evenienza.
In effetti, non ci sarebbero stati problemi se avessimo potuto effettuare il nostro normale atterraggio da “apertura”.

L’apertura, per i meno esperti di cose aeronautiche, è la manovra con la quale si atterra con i jet militari, in condizioni di volo a vista.
Si arriva sulla pista nella direzione d’atterraggio a quota circuito (variabile da aeroporto ad aeroporto), ad alta velocità e con il velivolo “pulito”, cioè non ancora configurato per l’atterraggio. A fine pista si “apre”, vale a dire, si vira bruscamente di 180° con le ali quasi a “coltello”, tirando 2 o 3 G ed estraendo l’aerofreno. In questo modo ci si porta in sottovento perdendo rapidamente velocità, poi, in rapida successione, si estrae il carrello, i flaps e si vira in finale per l’atterraggio.
Nel caso di più velivoli in formazione, i “gregari” si dispongono tutti in ala al “leader” nel lato opposto alla direzione della virata, nel nostro caso era una “alona” di 12 velivoli, poi all’inizio della pista il numero 1 apre e via via tutti gli altri lo seguono con un secondo di separazione.
Questo è il modo migliore per far atterrare un elevato numero di velivoli nel più breve tempo possibile, a parte l’atterraggio in formazione dove la pista lo permette.

Come dicevo, se avessimo potuto atterrare in questo modo non ci sarebbero stati problemi, purtroppo, però, le condizioni meteorologiche a Keflavik si erano deteriorate rapidamente. Era il classico temporale estivo che in quelle zone arriva improvvisamente e altrettanto rapidamente si esaurisce, solo che noi non avevamo la possibilità di attendere.
La visibilità era molto ridotta e l’altezza della base delle nubi appena sufficiente per l’ILS (Instrument Landing Sistem).

Per ridurre al massimo i tempi di attesa degli ultimi, il Comandante decise di dividere la formazione in quattro sezioni di tre velivoli e venire giù una sezione dopo l’altra con l’ILS, dando, naturalmente la precedenza ai velivoli con meno carburante.

In ogni sezione il leader seguiva con la massima precisione la procedura strumentale, mentre i due gregari badavano solo a mantenere la posizione in ala, cosa non facile anche per dei piloti addestrati come noi, a causa della forte turbolenza e degli scrosci di pioggia. Si doveva letteralmente “mordere” l’ala. Ricordo che in alcuni momenti, attraversando nubi più dense, l’unica cosa che vedevo del velivolo del leader era il serbatoio all’estremità dell’ala.

Io atterrai con l’ultima sezione e una volta a terra l’indicatore di carburante indicava 50 kg.

Con 50 kg di carburante con il 339 al massimo si riesce a fare un circuito stretto, che vuol dire, dopo una riattaccata, riportarsi con una virata in salita molto stretta di nuovo in sottovento, pronti per un altro atterraggio. Solo che con quelle condizioni meteo questa possibilità non c’era e non riuscire ad atterrare con quell’unico tentativo equivaleva a doversi lanciare.
Come sempre succede nei casi di incidente aereo (non è stato il nostro caso, per fortuna, ma solo una situazione critica risolta bene), non c’è mai una sola causa, ma diverse circostanze sfavorevoli che, da sole non porterebbero all’incidente, ma che avvenendo insieme, invece, lo causano.
Anche nel nostro caso, infatti, la sola scarsità di carburante, se il tempo fosse rimasto quello previsto, non sarebbe stata un problema, mentre il temporale estivo, se avessimo avuto il carburante per attendere 10 minuti, si sarebbe spostato dall’aeroporto.
È stata la concomitanza dei due fattori a creare la situazione critica.

Nel volo di ritorno, comunque, sulla stessa tratta, anche perché confortati dalla provata affidabilità degli aeroplani, abbiamo percorso la distanza più breve passando lontano dalle isole.

Ringrazio l’autore per avermi mandato copia digitale del libro, non più in commercio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti sul post

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.