(Ultimo aggiornamento: 20 Marzo 2020)

Corrado Salvi racconta

di Luca Ricci
da 55 anni di emozioni.., a cura di Alessandro Cornacchini, 2015, p. 156

Ho avuto una vita operativa molto avvincente, passando per gli stormi e le macchine migliori dell’Aeronautica di allora. Pian piano però i gradi cominciavano a salire, senza che me ne accorgessi, visto che ero sempre impegnato a volare. Ero al 20° Gruppo e, arrivato a tenente colonnello, diventai papabile per il comando.

Fui pertanto destinato al 28° Gruppo della 3a Aerobrigrata di Verona Villafranca, comandata dal gen. Di Lollo, credo abbastanza conosciuto soprattutto dagli appassionati della Pattuglia. Un giorno Di Lollo mi chiamò nel suo ufficio e mi disse: «Ho deciso che tu andrai a comandare le “Frecce Tricolori”». Così, molto democraticamente, ero stato comandato lì. Proprio io che non conoscevo il lavoro e neppure avevo mai preso un caftè con uno dei componenti del team. Ovviamente le parole del generale non erano state una richiesta, ma piuttosto un imperativo che non mi lasciava grande scelta. Quindi, senza neppure pensarci, dissi un retorico, ma convinto, «Si!».

Era luglio del 1979 quando arrivai alle “Frecce Tricolori”, e presi il comando nell’ottobre dello stesso anno. Devo ammettere che quella fase della mia carriera non fu affatto facile, infatti, proprio in quegli anni ci fu il cambio macchina e si passò dal vecchio e affidabile G.91 al nuovo e tecnologico MB.339. Quel passaggio lo vissi a pieno, anche oltre le mie competenze. Quante volte andai a Varese e Venegono, con quella splendida “128”, per parlare con i tecnici egli ingegneri esperti del nuovo velivolo. Ogni volta era una tortura dover macinare tutti quei chilometri, le automobili non erano assolutamente comode come quelle di oggi. Quel cambiamento l’avevo preso a cuore e volevo che fosse fatto come si deve.

Il mio comando fu un periodo complesso sia dal punto di vista professionale che umano, soprattutto perché ci fu il grave incidente di Gallus. La sua morte ci lasciò un vuoto, incolmabile. Un duro scoglio che dovemmo superare, con grande coraggio e determinazione.

Ma tornando al “339”, la transizione non fu facile. Tutti i piloti e gli specialisti dovettero fare il passaggio macchina. Io in primis seguii questo aspetto. Non solo, mi occupai anche della colorazione dell’aeroplano, dell’impianto dei fumi, ecc. In particolare, a proposito di quest’ultima, l’ing. Bazzocchi, persona di una squisitezza e una professionalità indescrivibili, si era messo in testa che era meglio applicare esternamente i condotti del liquido dei fumi. Ero molto perplesso e non riuscii proprio a non esprimergli le mie titubanze: «Mi scusi ingegnere, lo so che non è il mio lavoro, ma me le devo confessare che questa idea di mettere i tubi dei fumi esternamente non mi convince – anzi gli dissi – questi tubi esterni sono proprio un po’ bruttini e mi sembra un peccato applicarli rovinando un aeroplano così bello!». Lui non si risentì dell’osservazione che di feci e mi risposte con garbo: «Ma Comandante ce l’hanno già gli altri, come i francesi o gli inglesi e nessuno si lamentato dell’estetica rovinata». Purtroppo questa sua risposta non mi convinse affatto, tanto che aggiunsi: «Ingegnere, mi permetta di ripeterle che secondo me stanno proprio male». Sicuramente il mio punto di vista non l’aveva conlinto, ma forse una pulce nell’orecchio ero riuscito a mettergliela.

Dopo poco tempo da questa nostra conversazione l’ingegnere insieme ai due collaudatori, Bonazzi e Durione, vennero in visita a Rivolto. Quel pomeriggio chiacchierammo a lungo e, fattasi una certa ora, proposi: «Che fate venite a cena da me?». Forse non si aspettavano quell’invito dell’ultimo minuto, ma la proposta fu gradita e mi risposero subito di sì. Chiamai immediatamente mia moglie per avvisarla che avremmo avuto ospiti a cena. Lei, un po’ come tutte le donne, presa alla sprovvista, si preoccupò subito: «Ma non ho niente, non ho preparato nulla!». Cercai di tranquillizzarla dicendole: «Stellina basta pane e prosciutto, siamo nella terra del San Daniele ne saranno onorati». Ma lei non si convinse e mi chiese: «Chi viene a cena?». Quella domanda mi spiazzò, non potevo dirle che era l’ingegnere Bazzocchi, se no sarebbe svenuta, allora per non farla agitare ulteriormente le risposi: «Non ti preoccupare sono tutti amici». La cena andò benissimo, una serata piacevole, con tante risate. Trovammo anche il tempo di parlare dei condotti dei fumi e a un certo punto, forse sfinito dalla mia insistenza o forse convinto, Bamcchi mi disse: «Comandante vengo a vedere l’aeroplano domani mattina presto».

Erano le 22.30, forse le 23, ricordo ancora benissimo che, a quell’ora, dovetti chiamare il capo hangar per avvisarlo della visita del giorno dopo: «Domani alle 8 mi serve un aeroplano sui cavalletti». Non vi racconto la sua colorita risposta, ma io sapevo che l’avrebbe fatto.

Questa è una caratteristica di tutti gli appartenenti del 313° Gruppo di ieri, come di oggi, ne sono sicuro: un senso di appartenenza che va oltre l’immaginabile. Infatti, il giorno seguente alle 8 in punto l’aeroplano era lì pronto. L’ingegnere Bazzocchi arrivò puntuale e si “infilò là dentro” per più di un’ora, studiò ogni millimetro delle ali, spulciò tutto l’aeroplano, mentre io impaziente aspettavo il suo verdetto. Poi uscì fuori con un bel sorriso e mi disse: «Si può fare!».

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