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di Giampaolo Miniscalco
da “Rivista Aeronautica”, febbraio 1998

L’asfalto della pista scorre velocissimo sotto le ruote del mio F-104 appena atterrato.
Da domani dovrò abituarmi a velocità di atterraggio molto più basse.
Sono infatti stato trasferito alle “Frecce Tricolori”.
Tiro per I’ultima volta la maniglia di estrazione del parafreno e lo “Starfighter” decelera rapidamente.
Liberando la pista all’ultimo raccordo sfilo vicino alla recinzione dell’aeroporto e non posso far a meno di pensare a quando da ragazzino venivo ad attaccarmi a quella stessa rete sognando di fare il pilota intercettore.
Quel sogno era poi diventato realtà.

L’Accademia, le scuole di volo e, incredibile, I’assegnazione proprio alla “mia base”.
Ho lavorato duro nei quasi tre anni trascorsi in questo meraviglioso reparto, guadagnandomi la “combat readiness” e, recentemente, la qualifica di capo-coppia.
Poi, un bel giorno, il comandante di gruppo mi chiama nel suo ufficio: «Dalla PAN mi hanno chiesto informazioni su di te», mi dice in tono serio «che ne pensi?».
«Penso che se cercano uno come me forse sono un po’ a corto di alternative migliori», commento tra I’imbarazzato e il sorpreso per I’improvvisa opportunità che mi viene prospettata.

L’idea di andare alla PAN va al di là dei miei sogni, tanto mi sembra lontana e irraggiungibile.
Ma devo dare una risposta, esprimere il mio pensiero.
Qui faccio quello che per me è già il lavoro più bello del mondo, in un ambiente di prim’ordine.
Ora che ho accumulato un po’ di esperienza potrei portare il mio contributo di idee all’attività del gruppo.
Andare alla Pattuglia significherebbe ricominciare da zero, in un ambiente che non conosco, per svolgere un’attività che, penso, contrasti con il mio carattere tendenzialmente schivo.
Per la prima volta guardo alla PAN da un’altra prospettiva e mi rendo conto improvvisamente di quale attrattiva eserciti su di me.

A pensarci bene, le “Frecce Tricolori” mi sembrano un po’ come la Nazionale del Volo.
E poi la filosofia della mia vita di pilota è sempre stata quella di non forzare mai la mano al destino, ma nemmeno di ostacolarlo.
Si, credo di avere la risposta.
Faccio un respirone e poi dico al capo: «Se alla PAN sono contenti di avermi, io ci vado anche a piedi».

E così eccomi qua in questa fredda mattina di dicembre mentre con la mia vecchia utilitaria carica all’ inverosimile vago per il paese di Codroipo alla ricerca di un’indicazione per I’aeroporto di Rivolto.
Ma di cartelli neanche l’ ombra. «Scusi da che parte è l’aeroporto?».
Un signore in bicicletta mi risponde sorridente in friulano stretto.
«Grazie» faccio io, che ovviamente non ho capito niente, ma ricambio il sorriso.
Decifrando il suo gesticolare riesco comunque ad imboccare la via giusta ed improvvisamente ecco lì, davanti a me, I’ingresso della base.

Il cuore batte forte mentre attraverso il cancello dell’aeroporto e sembra impazzire quando metto piede dentro il comando di gruppo.
I piloti che tante volte ho visto in foto sono qui.
Ecco, quello è il leader, 5.000 ore di volo al suo attivo, quello è il solista, 5.000 ore anche lui, quello è il n.6, 4.500 ore!
Ma io che ci faccio qui?
Tra l’altro non arrivo neanche a 1.000 ore.

Il comandante (Diego Raineri, ndr) mi riceve con modi sbrigativi: «Ben arrivato, qui si lavora duramente, il primo periodo è di prova. Se vai bene ok, se non vai … arrivederci e grazie».
Detto questa mi congeda e mi passa in consegna al capo formazione (Mario Naldini, ndr).

Dopo due giorni, tre voli a doppio comando e uno da solista arriva finalmente il momento del primo volo in coppia.
Per questa missione il mio leader sarà lui, quel pilota coi baffoni (Piergiorgio Accorsi, ndr) . E’ un tipo atletico, piccoletto e nervoso, perennemente arrabbiato.
Dietro di me, sul mio aereo, salirà un altro gregario anziano. Ma ce n’e proprio bisogno? mi chiedo.

Dopo il briefing, nel quale mi si spiega in modo molto dettagliato tutto quel che faremo, saliamo sugli aerei e via, si comincia. Il decollo in coppia lo effettua il mio “istruttore” dal posto posteriore.
Mi mostra il “parametro”, cioè la posizione da mantenere rispetto al leader.
In effetti è un po’ scomoda, qui alla PAN si vola con “gradino” negativo, ossia più bassi di come si usa al reparto.
«Il “trucco”», continua l’anziano «è mettere quel pistoncino dell’ala del leader (in gergo “chiodo”) sopra il casco del pilota». Semplice! Certo che siamo vicini.

Accidenti quanto è grosso quell’aeroplano!
La punta della sua ala è la, se allungassi il braccio potrei toccarla. Quanto sarà? Un metro? Forse due.

«E’ tuo» mi dice l’anziano. Rispettosamente metto un po’ di aria fra me e il leader, e subito iniziano le danze.
Nel senso letterale della parola.
Il mondo comincia a roteare, rivoltarsi, abbassarsi, alzarsi in un crescendo vorticoso.
Quattro “g”, due “g”, sei “g” e mezzo, zero “g”, sudo come non ho mai fatto.
Mi sembra di avere un rubinetto aperto dentro al casco.
Il respiro è affannoso, il ritmo cardiaco è al massimo, il braccio mi fa male, sono rigido come un baccalà.
Ho il sole negli occhi, percepisco la terra velocissima e vicinissima sotto la mia ala. E quel “chiodo” che balla, balla, balla intorno alla testa del leader senza mai fermarsi.
Ogni tanto sento le mani dell’anziano sulla cloche (che vergogna!).

Comincio ad essere in debito di energie, ma con la coda dell’occhio vedo con sollievo che anche I’indicatore del carburante scende rapidamente.
Stringo i denti e mordo I’ala.
Il maledetto “chiodo” adesso sembra un po’ più fermo, ma non di tanto.
Dopo quaranta minuti d’inferno, finalmente il leader decide di atterrare e con un poco professionale rimbalzo anch’io rimetto le ruote sulla pista. Al parcheggio scendo dall’ aereo.

Sono stanco come non mi era mai capitato di essere.
La tuta è fradicia di sudore.
Sto qui, di fianco al 339 blu.
Mi si fa incontro il baffone.
E’ un po’ sudato anche lui.
Mi guarda dritto negli occhi serio: «Una bella schifezza il tuo volo».
Poi lo sguardo si umanizza e ridacchiando sotto i baffi mi dice: «E’ capitato a tutti, non mollare socio e ce la potrai fare!»
Ci puoi scommettere, non mollerò, accidenti!
Con orgoglio, voglio dare il mio piccolo contributo perché le nostre scie tricolori possano continuare a lungo a riflettersi negli occhi lucidi dei tanti che ci guardano e ci vogliono bene.

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