(Ultimo aggiornamento: )

di Fabrizio S. Bovi
da “Aerei”, ottobre 1979, pp. 37 – 38

Al CDA della base di Rivolto, mentre il Capitano Giuseppe Liva, gregario destro della PAN, compila il foglio del piano di volo, chiedo a titolo di curiosita le previsioni del tempo all’ufficio meteo. Un po’ per via di un’abitudine contratta in centinaia di voli da diporto, ed anche per trarre qualche informazione che tornerà utile al momento della scelta del materiale fotografico da portare a bordo.

Il piano di volo prevede un «locale», come dire che voleremo nello spazio aereo compreso fra il confine jugoslavo ed il Brennero; il nome in codice assegnatoci è Pony 31. Un quarto d’ora più tardi, il Capitano Angelo Boscolo, pilota solista della Pattuglia Acrobatica, mi aiuta ad infilarmi nell’abitacolo e mi impartisce gli ultimi consigli, mentre stringe forte le cinture di sicurezza ed uno specialista rimuove le spine di attivazione del Martin Baker zero-zero Mk6, contrassegnate dalle caratteristiche bandierine rosse. La sequenza di lancio sul G-91 non prevede lo sgancio e l’espulsione del tettuccio; si esce sfondando la cappottatura di plexiglass. Alla mia espressione un poco perplessa, Angelo risponde dicendomi che e un’operazione sicurissima e non è mai capitato nei venti e più anni di vita operativa della macchina, a chi si sia lanciato, di essere neppure sfiorato dai bordi taglienti del cockpit infranto. Avverto lo sfiato della cartuccia di accensione che inizia l’avviamento del reattore, una nube di fumo rnarroncino sul lato destro del velivolo che subito si dissolve. Lo specialista ricarica il dispositivo introducendo un nuovo bossolo. L’Orpheus 803 sibila e su ordine del comandante stabilizzo l’orizzonte artificiale. Abbasso il comando dì chiusura del tettuccio e quindi lo blocco facendone scattare la leva del dispositivo. Armeggiando con la pulsantiera dell’apparato interfonico, riesco a tacitare un fastidiosissimo gracidio che sento in cuffia e che mi rompe letteralmente i timpani. Mentre mi guardo un po’ attorno per familiarizzarmi con la strumentazioni, ci muoviamo, e lasciando il parcheggio con un dolce rollio sfiliamo davanti ai 10 velivoli della Pattuglia schierati a terra.

Ci allineiamo direttamente in pista senza la rituale sosta al punto attesa. Il cielo campo è libero e quello del Friuli è tutto nostro. «Beppe» Liva rilascia i freni e iniziamo l’accelerazione. Non è fortissima, ma questa sensazione ritengo sia dovuta in buona parte alla posizione eretta a cui sono costretto dal seggiolino.

La manetta di controllo della potenza è a fondo corsa, tutta in avanti: 2270 kg. di spinta. A centoquaranta nodi, dopo aver percorso circa metà pista, stacchiamo con dolcezza ed avverto il classico tonfo sordo del rientro del carrello, contemporaneamente ad un incremento della velocità che viene dato dalla retrazione anche dei flaps.

Scivoliamo verso Udine in leggera cabrata e dopo circa tre minuti siamo a quindicimila piedi di quota immersi in un cielo blu luminosissimo, sopra una distesa lattiginosa che nasconde parzial-mente le montagne della Carnia. Beppe mi comunica alzando le mani guantate che ora l’aeroplano è «mio». Un po’ timoroso provo un’accostata a destra ed una a sinistra; appena sfioro la barra il velivolo risponde sensibilissimo e dolce contemporaneamente. Il comandante mi invita a compiere un tonneau. Il ricordo di un recente volo con lo Starfighter mi porta a cabrare un poco e a svolgere i 360 gradi della rotazione molto lentamente, conferendo alla figura un’impronta a botte, per evitare gli accoppiamenti inerziali del velivolo. «Lascialo scendere un po’, tira la barra appena appena, e poi gira più veloce» – mi dice il comandante -.

È favoloso, ci abbassiamo fino a sfiorare con il ventre del velivolo lo strato di foschia che assume l’aspetto di un mare di latte, poi alzo il muso e via, un altro tonneau. «Bene così, ma più veloce ancora». Questa volta, mentre siamo rovesci, non ho neppure il tempo di restituire la barra per alleggerire la fase successiva di raddrizzamento. Non nego che comincio a prenderci gusto grazie anche alla quasi assoluta assenza di accelerazioni positive e negative che il volo a getto normalmente comporta.

Verso Dobbiaco ci caliamo in valle per vedere meglio le Dolomiti. Scendiamo ancora un poco e con una virata decisa, Beppe punta contro le Cime di Lavaredo. La parete a picco della Grande ci viene incontro a ottocento chilometri all’ora e solo in questo momento comprendo le reali intenzioni del pilota: infiliamo una forcella fra due muri a strapiombo, larga una settantina di metri al massimo. «Ci passiamo bene, noi siamo larghi appena otto metri e sessanta!» – mi rassicura la voce tranquilla di Beppe -. «È di nuovo tuo, prova a fare rotta verso il campo». Tengo d’occhio di tanto in tanto la lancetta del TACAN compensandone le lente oscillazioni, di mano in mano che ci avviciniamo alla base.

Noto che l’aeroplano si comporta come se l’aria fosse turbolenta. Più tardi mi accorgerò che la colpa di questo ballo va riposta unicamente nel «manico», come si usa dire in gergo aeronautico. Infatti il velivolo è in grado di percepire ogni più piccolo movimento delle dita o del polso, sulla cloche. Scivoliamo sfrecciando stilla pista a una quota di duecento piedi, tagliandola da nord a sud, e puntiamo verso il mare.

Sulla laguna di Grado il comandante Liva riprende il controllo della macchina e ci abbassiamo al pelo dell’acqua. Filiamo come una freccia a quattro metri di quota disegnando una traiettoria perfetta, e ci alziamo appena per superare un isolotto di canne. Poi di colpo siamo «in coltello», a fendere l’aria in virata, mentre incasso di malavoglia un’accelerazione a tre G. «A questa quota il radar non ci rileva», mi assicura Beppe. Ci alziamo di nuovo e ci troviamo a tremila piedi in vista del campo.

«Buttalo giù!». Eseguo timidamente. «No, giù, più giù». Scendiamo in picchiata ripida verso il nastro di cemento di Rivolto. A una cinquantina di metri, il comandante richiama il velivolo e questa volta i G divengono quasi cinque. Sprofondo nel Martin Backer. Saliamo in candela e puntiamo verso il sole di mezzogiorno. Al culmine della, volta restituisco la barra e percepisco distintamente il diminuire della velocita, mentre pista, alberi e campanili sono al posto del cielo. Picchiamo nuovamente in verticale e la velocità sale in maniera impressionante. Un’occhiata all’anemometro: trecento cinquanta nodi. Di nuovo, una richiamata, sei G. Mi cala il velo nero sugli occhi, contemporaneamente avverto un diffuso formicolio al capo e le guance affondano nella maschera ad ossigeno.

Il peso della macchina fotografica diviene enorme e mi riesce con fatica di appoggiarla su un ginocchio. Ci abbassiamo nuovamente e compiamo un tonneau in quattro tempi sull’asse della pista. Quindi un passaggio rovescio. Ci portiamo all’atterraggio dopo l’apertura breve. Carrello estratto, flap su land, aerofreni,… centocinquanta nodi… «Atterra tu» « lo? » «Dai, prova». Effettuo una sorta di avvicinamento disastroso, richiamando alto e cercando istintivamente di smaltire la velocità, retaggio anche questo del volo ad elica.

«Più veloce, fallo scendere!» Beppe riprende il controllo e costringe a terra il G91.

Tocchiamo e poi ancora su. Dopo mille metri siamo già col carrello dentro e viriamo con un’inclinazione di novanta gradi, sfiorando la torre di controllo. Stavolta all’atterraggio pensa Beppe e tocchiamo terra con dolcezza. Per frenare, opponendo più resistenza possibile, alziamo il muso. La portanza residua dovuta all’elevato angolo di assetto rende leggero il velivolo che saltella per qualche secondo alternativamente sulle ruote del carrello principale. Liberiamo quasi da fermi la pista principale imboccando un raccordo sulla destra, situato poco oltre la metà; abbiamo rallentato senza l’uso del paracadute di coda e con un uso molto moderato dei freni.

Mi sgancio la maschera ancora in rullaggio ed aziono per qualche secondo la levetta rossa dell’ossigeno di emergenza. Quest’ultima parte del volo, durata una dozzina di minuti, mi ha un poco provato.

A terra, mentre pilota e specialisti ultimano i controlli dopo-volo, ci raggiunge una telefonata. Un radar di sorveglianza situato nel Veneto ha individuato una traccia a bassissima quota sul mare, prossima al confine con la Jugoslavia, e l’IFF del nostro Pony 31, entrato in avaria, non ha risposto all’interrogazione automatica.

Beppe mi guarda sorridendo in un cenno d’intesa. Abbiamo scomodato anche i Centoquattro S di Istrana.

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Il capo redattore di Aerei, Fabrizio S. Bovi (sulla sinistra), ritratto con il Capitano Giuseppe Liva, gregario destro della PAN. Il Cap. Lira ha all’attivo oltre 3200 ore di volo come pilota militare.

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Il velivolo impiegato durante il nostro reportage di volo è stato un FIAT G-91 T (codice SA 38): gli ultimi controlli pre-volo.

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L’istante del rilascio dei freni, sulla pista di Rivolto

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