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di Toni Capuozzo
da milanopost.info, 3 marzo 2021 [ fonte ]

Le Frecce Tricolori hanno compiuto il  1 marzo, sessant’anni. In loro onore vorrei pubblicare un articolo che scrissi per Epoca, nel settembre 1986, dopo averle seguite in Canada.

LE FRECCE TRICOLORI IN AMERICA

(da Epoca, 1986)

Un giorno d’agosto insolitamente caldo per le diafane latitudini della British Colombia, Canada, è stato forse il giorno più bella della intensa vita di Benny Benvin. Il biglietto da visita – sales manager – l’eleganza un po’ yankee e l’italiano faticoso del suo racconto nascondono una storia fuori dal comune.

Benvini Beniamino partì trentacinque anni fa da Trieste, in tasca solo i soldi per imbarcarsi da Bremna alla volta di Halifax, sulla costa atlantica del Canada. Lavorò per tre anni come meccanico in un’officina, poi si mise in proprio. Accumulato un solido conto in banca, si improvvisò agente immobiliare.

Adesso è un uomo d’affari cinquantacinquenne, ricco abbastanza da lavorare solo per ingannare il tempo. È arrivato a quella stagione della vita in cui si è raggiunto quel che si voleva e, più che progetti, si alimentano nostalgie. Così, all’alba di una mattina d’agosto, è salito sul proprio aereo personale, un Chessna 337, e ha fatto rotta su Abbotsford, a un’ora di volo da casa sua. Atterrato sulla pista in mezzo ai boschi, è andato a cercarsi un posto tra centinaia di piccoli aerei privati, tra camper e roulottes, tra i baracchini di hot dog e hamburger, tra tovaglie da picnic e barbecues, tra centinaia di migliaia di persone che attendevano pazientemente l’inizio dello spettacolo.

Era il cinquantesimo air show di Abbotsford, celebrato dall’esibizione, accanto alle più note pattuglie acrobatiche del mondo, delle Frecce Tricolori italiane. Un giorno speciale per trecentomila spettatori.

Per Beniamino Benvini, il giorno più bello, come ha pensato mentre applausi senza fine accompagnavano i piloti italiani, conciliando il suo personale successo canadese con le umili e mai dimenticate radici triestine. Avesse potuto, quel pomeriggio d’agosto, Benny Benvin avrebbe italianizzato di nuovo il suo cognome.

“Full”, completo. È il cartello che i poliziotti di decine di contee americane e province canadesi hanno dovuto esporre sulle strade d’accesso agli aeroporti toccati dalla tournée della Pattuglia Acrobatica Nazionale.

Era un ritorno atteso da tempo. Negli anni ’50, è vero, i Diavoli Rossi del capitano Squarcina si erano esibiti oltreoceano, ma a bordo di aerei prestati per l’occasione dall’Air Force americana.

E occorreva risalire agli anni eroici delle macchine volanti per ritrovare il sapore di grandi imprese.

Quelle di Tito Falconi, per esempio. Che si trovava negli USA quando un pilota americano gli strappò il record del volo a testa in giù. Falconi, senza scomporsi, annunciò che avrebbe volato “a rovescio” da Saint Louis a Chicago, quattrocentoventi chilometri. E lo fece, contro il parere dei medici e lo scetticismo dei tecnici, volando a piedi in su per tre ore, sei minuti e trentanove secondi. Un trionfo: prime pagine dei giornali, fotografie accanto a Jean Harlow, proposte da Hollywood.

E occorreva riandare alla trasvolata dei 24 idrovolanti di Balbo per trovare qualcosa di simile alla lunga spedizione che, a metà luglio, ha visto il trasferimento della PAN da Rivolto, in Friuli, a Frobisher, nella Terra di Baffin, primo scalo americano.

Una spedizione preparata con cura meticolosa. Si trattava di pianificare la permanenza all’estero, per due mesi, di 36 ufficiali, di 78 sottufficiali, di quattordici aerei. Gli specialisti, per esempio, hanno studiato con rigore statistico la casistica delle riparazioni effettuate negli ultimi quattro anni per decidere quali pezzi di ricambio portarsi dietro. E stivare di venti tonnellate di peso i due C 130 al seguito della Pattuglia.

I piloti hanno seguito, in una base della RAF inglese, un duro corso di sopravvivenza in acque gelate come quelle della rotta artica. Duro non è un eufemismo: i piloti sono stati lanciati in acque dove la sopravvivenza è questione di pochi giri della lancetta dei secondi, prima di essere recuperati dai mezzi di soccorso.

Infine è venuto il gran giorno, e la partenza dalla base di Rivolto con le tappe in Germania, in Scozia, a Keflavik in Islanda, a Sondresstrom in Groenlandia, e finalmente, tra venti contrari che soffiavano a cento all’ora, la Terra di Baffin e poi il Labrador, il 16 luglio. Ore e ore inchiodati ai sedili di aerei fatti per incursioni rapide, con un’autonomia limitata, passaggi tra bufere in cui gli aerei dovevano stringersi l’uno all’altro, pena il perdersi di vista, rifornimenti in basi isolate e inospitali, con due aerei BR1150 carichi di sacchi e battelli gonfiabili pronti a intervenire in caso di emergenza.

E poi, il 19 luglio, l’esordio a North Bay, nell’Ontario, con l’emozione della prima esibizione. Mc Guire, nel New Jersey, con la delusione del passaggio a 370 metri sopra la Statua della Libertà e sopra Manhattan in un giorno nuvoloso, senza poter vedere e senza poter essere visti.

La fiera di Oshkosh, nel Wisconsin, all’inizio di agosto, là dove Paul H. Poberezny, un vecchio pilota di Mustang, organizza il più pazzo spettacolo del mondo, ottocentomila spettatori e quindicimila aerei, John Travolta e il senatore Barry Goldwater con i loro aerei personali, appassionanti che fanno volare carcasse d’epoca tirate a lucido, stormi interi di caccia che hanno fatto la guerra mondiale, cortei di fortezze volanti, improbabili velivoli costruiti nel garage di casa.

E poi MooseJaw, nella provincia canadese dell’Alberta, con tutti i ventisei italiani residenti schierati in prima fila, ai bordi della pista.

E l’airshow di Abbotsford, con il passaggio delle Frecce sopra l’Expo ’86 di Vancouver, sopra i padiglioni dove americani e sovietici esibivano le loro gare spaziali.

L’inaugurazione dell’aeroporto di Moffet Field, vicino a San Francisco e l’esibizione di Sheppard, nel profondo Texas, dove un ex comandante delle Frecce, il maggiore Posca, insegna alla Scuola dei piloti della Nato.

Ovunque, un trionfo: titoli cubitali sui giornali, tutto esaurito anche se i biglietti costavano venti dollari, le famiglie che interrompevano il barbecue, i venditori di hot dog con il naso per aria, ragazzini e adulti a caccia di distintivi e souvenir tricolori, miss in gara per strappare un bacio.

A Billings, Montana, già due mesi prima dell’esibizione delle Frecce gli appassionati sfoggiavano una t-shirt verde brillante con sopra scritto: “The italians are coming”, gli italiani stanno arrivando. I piloti accolti ovunque come tanti Gary Cooper e James Stewart appena usciti dallo schermo.

Eppure, a terra, sono un’altra cosa. Gente normale, non più giovanissima, abituata a fare bene il proprio lavoro, a scherzarci sopra per diminuirne la tensione. Un gruppo ben collaudato, una piccola antologia di vicende umane.

Prendete il comandante, il ten. colonnello Giuseppe Bernardis, uno schivo friulano di 38 anni che ne dimostra qualcuno di più. Prese il brevetto di pilota proprio in Canada, ha ritrovato in questi giorni due compagni di corso. Uno fa l’avvocato, l’altro è pilota civile di Jumbo. Per capirlo, occorre guardarlo mentre i suoi ragazzi volano e lui, a terra, si accovaccia sulla radio e soffia nel microfono. “Sette, spostati più in là. Cinque, avvicinati un po’ “. Ordina spostamenti millimetrici, le vene del collo gli si gonfiano impercettibilmente, dietro la voce decisa si intuisce la tensione, il pulsare delle tempie. Quando tutto finisce torna l’uomo pacato di sempre, abituato a farsi capire con gli sguardi, a riesaminare pazientemente con i ragazzi i filmati di ogni volo. Capace di dire ai suoi, nell’ultimo briefing prima della partenza, le cose che loro si aspettano, quando tutti i dettagli sono ormai chiari , mandati a memoria, e non resta che dire: “Forza, diamoci dentro”.

Su, in aria, chi comanda, leader della formazione da ormai cinque anni è il numero 1. Un toscano di 39 anni, il maggiore Naldini. Un estroverso, pronto alla battuta, sempre allegro. La voce gli si incupisce solo quando ricorda Miglio, il ragazzo che morì in volo a Rivolto. Ne parla a fatica. E non tira fuori i sentimenti e non spreca aggettivi. Ma dice: “mi morì”.

Per diventare pilota delle Frecce occorre superare una selezione spietata, dove non valgono raccomandazioni e dove valgono relativamente le visite mediche e gli esami tecnici. Vale di più una sorta di esame personale e quotidiano, sentirsi pronti a giocarsi la vita sul filo di una conoscenza perfetta della macchina, dei suoi e dei propri limiti.

Alle spalle hanno tutti una specie di vocazione non detta, e un addestramento rigoroso. Poi, ognuno ci mette la sua molla personale, il suo bagaglio umano, qualcosa che ci si porta dietro quando il meccanico chiude il tettuccio dell’aereo e lo speaker annuncia l’esibizione delle “Free-chi Tree-Ko-louri”.

Metti il capitano Giampietro Gropplero di Troppenburg, rampollo di una nobile famiglia. Avrebbe potuto dedicarsi al castello di famiglia dei suoi, imparentati con i Nievo, o dedicarsi all’insegnamento della filosofia, come suggerirebbe la sua laurea. Invece no, ed è felice di fare “il lavoro più bello del mondo, per me”.

Oppure il capitano Gianluigi Zanovello, di Udine. È il capo calotta, cioè il capo di una gerarchia non scritta, una sorta di goliardia aeronautica che organizza scherzi innocenti e festicciole. Solo pochi tra i suoi amici sanno che anche il fratello maggiore – parecchi anni di differenza, un rapporto di ammirazione più che di confidenza. Era un pilota, e che morì in volo, dalle parti di Brescia. Fu allora che Gianluigi decise che avrebbe fatto il pilota.

Il numero 6 della formazione è un triestino di 37 anni, Fabio Brovedani. Aveva studiato al Nautico, e fu solo per caso che scoprì la passione per il volo, accompagnato in un aeroclub da un amico che oggi è il pilota personale di Gianni Agnelli. Il numero 5 è il capitano Accorsi, un veronese che si vide interrompere una promettente carriera calcistica da un incidente al ginocchio.

Si fatica a ricordarsene quando sono in aria, i numeri che scompaiono sulle carlinghe luccicanti, serrati l’uno contro l’altro, quando si disperdono in rapida successione e poi convergono come se dovessero cozzare l’uno contro l’altro e spariscono di nuovo, lasciandosi dietro una scia di fumo, ed a riempire il vuoto improvviso arriva dall’altra parte il solista, il numero 10. Arriva volando a testa in giù, a pochi metri dal suolo. Poi l’aereo si impenna, sale in verticale, sale in alto fino a quando la carlinga non si ferma nell’aria, il muso in alto, e c’è un momento terribile e silenzioso quando l’aereo scende a coda in giù di qualche metro e si avvita su se stesso, e si accartoccia tra nuvole di fumo disordinato e scende come se non dovesse più fermarsi, e chiunque può capire che il tubo dell’ossigeno del pilota si sta torcendo, che la tuta antigravitazionale si sta gonfiando per impedire che il sangue defluisca dal cervello, e che il mondo da lassù deve sembrare impazzito, ora di qua ora di là, un colpo ai freni uno alla cloche, fino a quando l’aereo si raddrizza e fila via veloce, e sulla gente piomba all’improvviso la formazione al completo e uno capisce che non è solo questione di macchine.

Basta guardarli all’arrivo, quando il meccanico apre il tettuccio, e scambia uno sguardo d’intesa con il pilota.

Guardi quelle facce stravolte e capisci che ventidue minuti per aria, tirati a quel modo, sono qualcosa di più di ventidue minuti.

Capisci perché in certi passaggi i piloti urlano per darsi determinazione, capisci il perché di certe piccole scaramanzie – non amano che gli si auguri “buon volo”, ad esempio – capisci perché Accorsi prima del volo resti per delle ore con le cuffie del registratore incollate alle orecchie e subito dopo il colo corra a cambiarsi la maglietta impregnata di sudore.

Capisci perché alla Pattuglia non vogliano assi dalla testa calda, ma gente che ripete di avere famiglia, di fare un lavoro normale, di avere preoccupazioni comuni, l’affitto e la scuola dei figli. È vero, tranne che per quei ventidue minuti in cui conta solo la geometria del volo, la veloce successione di looping e tonneaux, la ragnatela di intesa, di stima e di abilità che regge l’immobile e rapidissima costellazione dei dieci aerei sopra la pista.

In sedici anni da che è stata costituita la Pattuglia Acrobatica Nazionale sono morti dodici piloti.

Eppure nessuno si è mai tirato indietro, eppure tutti se ne vanno, quando viene il momento della rotazione, con un grande rimpianto dentro.

Eppure nessuno scomoda l’eroismo o il coraggio o altre parole grosse. Tirano fuori segreti più concreti. Il lavoro degli specialisti, per esempio. Gente senza applausi, ma decisiva, che conosce e tratta l’aereo come fosse una cosa viva, ogni aereo con la sua storia personale, il suo carattere, i suoi difetti.

Insieme, piloti e specialisti, fanno una specie di uomini che sembra fatta apposta per piacere all’America. Un paese forte di mezzi potenti e perfetti, ma affamato di uomini capaci di strappare qualcosa di più alla perfezione e alla potenza della meccanica.

I piloti della pattuglia acrobatica statunitense, i Blue Angels della US Navy. Sembrano altrettanti Big Jim, rigidi nelle tute di volo, imprigionati da un militaresco cerimoniale sulla linea di volo. Automi, mentre la gente cerca uomini che abbiano paura come tutti, ma siano poi capaci di vincerla. Uomini che restano svegli la notte per telefonare alla famiglia a un’ora decente nonostante il fuso orario, che hanno mal di stomaco a forza di hamburger e patatine, uomini che ripetono di fare un mestiere come un altro, ma che poi in ventidue minuti tirano fuori il meglio da se stessi.

Negli air show americani si sono visti il Blackbird, l’aereo spia, l’aereo delle meraviglie che può volare a 24.000 metri di quota – praticamente nello spazio – e scatta fotografie precise nei dettagli, e nessun missile può colpirlo, tanto è veloce.

Si è visto il Sea Harrier, l’aereo che decolla in pochi metri e si libra fermo nell’aria, come un elicottero da fantascienza.

Si sono visti il Concorde e l’aereo da trasporto più grande del mondo, il sovietico AN74. E si sono ammirate decine di pattuglie acrobatiche.

Le Frecce Tricolori avevano qualcosa di più. A sentir parlare degli italiani, all’estero, si ascolta il consueto rosario degli spaghetti, del bel canto, dell’arte e della moda.

Nel volo delle Frecce c’era qualcosa si più, e di diverso. Tecnica, addestramento, fantasia, ritmo. Una miscela che ha mandato in visibilio il pubblico, che ha reso felice lo Stato maggiore per l’immagine che ne è venuta, che ha fatto fregare le mani ai dirigenti della Macchi, la costruttrice dei MB339 della Pattuglia.

Valeva la pena organizzare questa spedizione? Vale la pena rischiare la vita per una geometria da tracciare nell’aria? Non se lo sono chiesti i 1500 emigrati iscritti al banchetto in onore delle Frecce a Toronto, prima del ritorno in Italia, previsto per il 12 settembre.

E non se lo è chiesto Sebastiano Serpico, un emigrante della grande famiglia campana che ha dato i natali al poliziotto newyorchese passato alla storia del cinema: sull’aereo che lo riportava in Italia dopo trent’anni e tre mesi da muratore oltreoceano, Sebastiano Serpico non si stancava di ripeterlo. “Una bella soddisfazione. Paura di tornare in Italia dopo tanto tempo? Di trovare tutto cambiato? No, my friend. Ho un’altra paura. In nave venni, ero ancora un ragazzo. Quest’aereo per me, è la prima volta che volo”.

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