di Carlo Baron
da 55 anni di emozioni.., a cura di Alessandro Cornacchini, 2015, p. 148
Chièvres, 22 maggio 1986. Quando atterravamo in un aeroporto per una manifestazione non potevamo certo essere criticati perché pretendevamo un supporto logistico tale da sconvolgere l’organizzazione. Un autobus per il trasporto del personale, l’autobotte con il combustibile, un posto dove poter sistemare la paletta con le casse delle parti di ricambio e uno spazio per l’eventuale ricovero di un velivolo in manutenzione e del personale in caso di maltempo. Era tutta qui la nostra esigenza.
È forse per questo che arrivati in quello di Chièvres, aeroporto normalmente utilzzato anche dalle rappresentane militari di SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe) ovvero il Quartiere Generale delle Potenze Militari Alleate in Europa, ci stavamo chiedendo cosa avessimo fatto di male per meritare la sistemazione che ci avevano offerto. Oltretutto, la PAN avrebbe volato per il personale e i familiari di quest’importante comando e, di conseguenza, almeno un po’ di considerazione in più avrebbero potuto riservarcela, invece di parcheggiarci “fuori dal mondo” e senza un riparo nelle vicinanze. E vabbè!
Siccome non era certo la prima volta che ci capitava e non sarebbe stata purtroppo nemmeno l’ultima, ci saremmo organizzati come tante altre volte in situazioni simili. Il materiale lo avremmo sistemato accanto al velivolo di riserva, pronti a coprirlo con il telo blu in caso di maltempo. Per il personale, il riparo sarebbe stato il pullman dove, però avremmo dovuto sopportare le litanie del “clan dei brontoloni”: quei simpatici personaggi che si lamentavano in ogni caso, anche se ci avessero riservato come rifugio alla pioggia la sala centrale dell’Hotel Ritz al n° 75 di Place Vendome a Parigi.
«Se fosse capitato ai francesi o agli inglesi sarebbero già ritornati a casa!»; «Ci trattano così perché non ci lamentiamo mai!»; «Basta! È ora di finirla! Giuro che questa è l’ultima missione che faccio!». Sono certamente tante, ma non mi ricordo con precisione a quante altre “ultime missioni” io abbia in seguito partecipato con questi personaggi, mi ricordo però benissimo che quando c’era da lavorare e sacrificarsi erano sempre in prima linea a dare l’esempio. A essere sinceri, non è che avessero sempre tutti i torti, ma era proprio la nostra capacità di adattarci alle situazioni contingenti, il non pretendere l’eccesso accontentandoci di quanto poteva esserci offerto, oltre alla cordialità, alla simpatia e alla modestia, a rendere gradito il nostro gruppo, di piloti e tecnici, dovunque andasse.
Eccoci dunque alla giornata dedicata al volo prova della manifestazione che si sarebbe svolta il giorno dopo a Mons, la sede di SHAPE.
La Pattuglia — udite udite — avrebbe dovuto volare sopra l’area logistica, centrando aperture e incroci delle manovre proprio sopra la zona antistante il circolo ufficiali dove si sarebbero sistemati gli spettatori. Una, come dire, stravaganza, anzi due, considerato che la zona, più che l’area per una manifestazione aerea sembrava la sede di un raduno di volatili, il più piccolo dei quali aveva le dimensioni di una cornacchia.
Le “Frecce” si erano presentate sopra quell’improvvisata display line e avevano iniziato il programma. Il solista si era separato dalla formazione per fare la sua parte ma, al secondo passaggio, si era separato del tutto abbandonando i colleghi per tornare da noi, nell’aeroporto dal quale era decollato. Un improvviso attacco di nostalgia? Magari! Un gufo dalle dimensioni di un… gufo aveva colpito il velivolo. Svegliato di soprassalto dal pisolino pomeridiano per ritemprarsi dalla notte passata in bianco, come d’altronde facevano tutti i rapaci della sua specie, era fuggito dal suo nido con gli occhioni gialli ancora semichiusi, non s’era accorto che un uccello più grande e tosto di lui gli stava venendo addosso! Atterraggio immediato. Un disastro. Il bordo d’entrata della semiala sinistra presentava uno squarcio di una trentina di centimetri. Il giorno dopo la manifestazione avremmo dovuto raggiungere Torino per un altro impegno e l’aereo in quelle condizioni non avrebbe potuto assolutamente decollare da qui.
Il tipo d’inefficienza era di quelli normalmente risolvibili solo con il supporto del personale e dell’attrezzatura della Aermacchi, la ditta costruttrice che, secondo la prassi, sarebbe stata contattata per sollecitare l’intervento dei propri uomini direttamente in Belgio o, in alternativa, in Italia. In questo ultimo caso, però, noi avremmo dovuto rimuovere le semiali e la coda dal velivolo per permettere il suo stivaggio nel C-130 ed il successivo trasporto a Rivolto. Tempi biblici! Un problema mica da ridere!
È ben noto che gli specialisti della PAN sono professionisti dotati di grandissima esperienza, particolarmente abituati a risolvere subito e comunque problemi di diversa natura, ma a tutto c’è un limite.
La nostra impotenza per questo tipo d’inconveniente, avvenuto oltretutto in una base che ci aveva già dato tutto quello che ci poteva dare, cioè niente, sarebbe stata più che giustificata. Preoccupati e non poco, c’eravamo guardati in faccia cercando di completare la ricerca di nuovi epiteti da rivolgere a chi aveva preteso l’esibizione della PAN in una zona infestata dai volatili. Non ero però riuscito a vedere tra i presenti uno sguardo di pietà per quel povero rapace notturno del quale si scorgevano solamente alcune piume rimaste incastrate nello squarcio e che il m.llo Andrighettoni stava pazientemente rimuovendo!
Fermi tutti! Se Arturo, sottufficiale che in quanto a qualità morali e militari eccezionali assommava quelle che normalmente vengono definite delle “mani d’oro”, si stava interessando a quel buco, era il il caso di riacquistare il sorriso e riporre nelle custodie le bandiere bianche della resa. Lui avrebbe trovato sicuramente un modo per permettere al velivolo di rientrare in Italia con le sue gambe, o meglio con le proprie ali. Per fare questo, però, c’era assolutamente bisogno di una lamiera di alluminio dalla quale ritagliare “la pezza” da porre sullo squarcio e noi l’avevamo. Era come aver fatto entrare in campo il fuoriclasse che avrebbe potuto raddrizzare la partita di calcio ormai persa e accorgersi di aver smarrito il pallone! Mai demordere però! Questo era lo slogan che ci ha sempre sorretto, anche in operazioni che non sembravano alla nostra portata.
Utilizzando la jeep che, fortunatamente, c’era stata lasciata dopo l’atterraggio d’emergenza di “GB” Molinaro, il solista, incolpevole artefice della prematura scomparsa del povero gufo, Arturo e io eravamo andati in cerca di qualcuno che ci potesse almeno indicare dove eventualmente avremmo potuto trovare ciò che ci serviva. Tutto chiuso! In aeroporto, a parte i servizi d’emergenza che a noi in quel momento non servivano, non c’era anima viva, almeno nella zona in cui ci trovavamo. Scoraggiati, avevamo ripercorso la strada perimetrale della base per portare la triste novella ai colleghi che ci attendevano fiduciosi, quando la nostra attenzione era stata colpita da un cartello appeso alla rete di recinzione e sul quale erano riportate indicazioni riguardanti le procedure per il maneggio dell’ossigeno. Eravamo scesi di corsa dall’auto e mentre ci avvicinavamo verso quella “visione”, i nostri sguardi, incrociandosi, sembravano parlare la stessa lingua: «Speriamo che non sia una vecchia lamiera riciclata!».
Era di alluminio e dello spessore da noi desiderato! Senza pensare minimamente a chi, all’indomani, non avrebbe potuto maneggiare con sicurezza l’ossigeno a meno che non avesse a suo tempo imparato a memoria le avvertenze scritte sul cartello che stavamo trafugando, lo avevamo immediatamente staccato a colpi di tronchesina per tornare trionfanti in linea di volo.
Le condizioni atmosferiche erano nel frattempo peggiorate, s’era fatto buio e aveva incominciato a piovere. Ci mancava pure la pioggia! Se avessimo avuto la possibilità di sistemare il velivolo al coperto, non ci sarebbero stati problemi ma, trovandoci all’aperto, dovevamo trovare il modo affinché Arturo potesse lavorare all’asciutto. Ed ecco l’idea! Avremmo utilizzato una cappotta di quelle normalmente usate per coprire il velivolo. Bloccandone una parte sulla semiala con due gomme e tenendo alzata l’altra, con due manici di scopa maneggiati con gran senso di responsabilità (?) da me e Ignazio Vania, sarebbe stata creata una specie di tettoia sufficiente a coprirlo.
Terminato il posizionamento di trapano, lima, martello, mazzuolo, rivettatrice, metro, nastro adesivo distesi come su un tavolo operatorio in attesa del chirurgo, Arturo, alla luce di un piccolo faro, aveva dato inizio all’intervento, supportato dal signor Rosa, tecnico di collegamento tra noi e l’Aermacchi. I frrrr, toc toc, zzzzz screch, rumori prodotti dagli strumenti di lavoro impiegati, quasi non si sentivano talmente forte era quello dello scroscio della pioggia sul tetto di quell’officina improvvisata. Eravamo andati avanti per ore sotto quell’incessante diluvio, durante il quale Diego Raineri ci aveva portato dei panini e qualche birra per cena.
A notte inoltrata la riparazione era stata completata e non era di certo un semplice rappezzo di fortuna che, tenuto conto dove e con che cosa era stato effettuato, sarebbe stato più che giustificato, un lavoro fatto a regola d’arte con incredibile accuratezza. Alcuni mesi dopo il velivolo era stato inviato in Aermacchi per un ispezione programmata e i lattonieri della ditta avevano stentato a credere che quel lavoro non fisse stato fatto da loro ma da un nostro sollufficiale. Da un “fuoriclasse”, però, che, con la perfetta esecuzione di quell’originale “rattoppo”, in una buia e piovosa notte di maggio, aveva accresciuto ulteriormente il prestigio di tutto il Servizio Manutentivo delle “Frecce Tricolori”.
Il giorno della manifestazione tutti i velivoli erano disponibili per il volo a conferma della tradizionale capacità ed efficienza degli uomini della PAN. Questa volta, però, un grazie doveroso doveva essere rivolto a un grande maestro, schivo ed esemplare sul lavoro e nella vita, Arturo Andrighettoni.
Quando mi veniva chiesto di scrivere o parlare dell’attività degli specialisti che avevo il piacere di dirigere, riferivo puntualmente l’esito dell’avventura accaduta in quell’aeroporto belga, perché ritenevo che in essa fosse raccolta l’essenza del personale tecnico della PAN: gran capacità professionale, serietà, iniziativa, adattabilità, senso di responsabilità, attaccamento al reparto e ingegnosità. I giovani, però, mi prendevano simpaticamente e regolarmente in giro rimarcando che raccontare sempre le stesse cose era il segnale del mio inesorabile invecchiamento. Non avevano torto, ma neanche tanta ragione giacché io, di situazioni non simili, ma altrettanto al limite, ne avevo vissute tante altre. Quella, però, mi era sembrata proprio la più eclatante nella sua soluzione e, indipendentemente da quando e da chi fosse stata portata a termine, il raccontarla anche al di fuori dell’ambiente rendeva onore alla loro categoria.
Lo abbozzavo e, rifiutando con forza la patente di iettatore che loro volevano affibbiarmi, non mancavo scherzosamente di ammonirli con un «Occhio ragazzi, guai a prendere per il sedere i “nonni”. Non vorrei che un giorno…». Il caffè, con “uno di zucchero” chiudeva lo scambio di battute. Almeno per quel giorno. Sia pur saltuariamente e cercando sempre di non essere invadente, ho continuato a frequentare con piacere l’ambiente delle ‘Frecce” anche da pensionato. Durante queste visite non è mai mancata una capatina in hangar per salutare i miei ragazzi, o meglio ex ragazzi nel senso che gli anni erano passati anche per loro.
da Gianfranco Da Forno, Frecce Tricolori – La storia, Grafiche Battivelli, 2009, p. 63
Il 1986 fece registrare un episodio che esalta le capacità tecniche e l’inventiva dei nostri specialisti. Durante il volo sul Quartiere generale della NATO a Mons, in Belgio, GB Molinaro durante uno dei suoi interventi impattò con un volatile che penetrò nel bordo d’attacco in una semiala, costringendolo a rientrare subito nel vicino aeroporto militare.
Sembrava che il danno non potesse esser riparato, il che significava dover smontare il velivolo e riportarlo a casa con un trasporto. E qui entrò in scena il maresciallo Arturo Andrighettoni, un lattoniere come ce ne sono pochi. Lui e il capitano Baron andarono in giro per la base finché non trovarono un cartello stradale in alluminio leggero.
Una breve occhiata e qualche ora dopo la “pezza” comparve sul velivolo numero 10, che potè volare e ritornare a casa, non solo, ma volo due giorni dopo alla manifestazione di Torino.