Ultimo aggiornamento: 22 Giugno 2020
di Jan Slangen, Volare alto, La Nave di Teseo, 2019, pp. 116 – 121
Quando dico che essere padre cambia il modo di volare dico la verità. Intendo la mia di verità. A volte, certe sottigliezze si colgono solo con il senno di poi. A poco a poco, infatti, ho ridefinito i miei spazi in volo; se, prima, affrontavo quello che facevo in modo del tutto spensierato, come se non avessi paura di niente, nemmeno di morire (era una possibilità, certo, ma alla quale non pensavo mai), nel momento in cui sono nati i miei figli, la mente, fosse pure solo inconsciamente, finiva per andare lì.
Vivevo un nuovo senso di responsabilità. Cosa significa esattamente? Significa che la propensione al rischio di ognuno di noi non è costante nel tempo, ma dipende da tanti fattori tra cui lo stato emotivo che stiamo vivendo. In generale, perciò, le persone non solo tendono ad assumersi rischi minori man mano che invecchiano, ma soprattutto quando a cambiare è la “posta in gioco” o l’influenza che questa esercita su persone a noi care. Tradotto nel linguaggio delle Frecce, equivale a volare prendendosi quel centimetro di margine in più. Nel mio caso, non tanto per me, quanto, appunto, per Mattia e Giulia.
Mi torna alla mente un episodio successo nel 2011, che per tanti anni, ho completamente rimosso dall’album dei ricordi.
Eravamo in primavera inoltrata, per l’esattezza l’ultima domenica di maggio. Il torrido caldo estivo doveva ancora arrivare, ma le giornate si erano già allungate, il cielo era di un blu intenso e sgombro da nubi.
Qualche mese prima, la città di Gaeta si era proposta all’Aeronautica Militare quale meta turistica per ospitare la Pattuglia Acrobatica Nazionale. Sarebbe stata la prima volta per la città, e la Giunta aveva lavorato duramente per ottenere quella presenza così prestigiosa, in concomitanza delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Era il mio secondo anno nel ruolo di Capo Formazione, e, pertanto, spettava a me esprimere il giudizio di “fattibilità” tecnica. Controllai negli archivi storici (una buona parte era ancora cartacea), per capire se esistesse nel passato, una traccia di qualche presenza delle Frecce a Gaeta. In effetti, non era mai successo. La cosa, dunque, richiedeva un’analisi più approfondita: una manifestazione non è un gioco. E, anche se, da terra, può sem-brare che tutto fili liscio come l’olio, i rischi sono sempre in agguato e devono essere, di volta in volta, ben ponderati.
“Non abbiamo mai volato lì perché non ce l’hanno mai chiesto, oppure è l’orografia (l’aspetto e la distribuzione dei rilievi) di quei luoghi a non permetterci di farlo?”, era la domanda alla quale dovevo trovare una risposta.
A rendere più complessa la faccenda c’era un altro fatto: mia nonna era “gaetana” di origini, e la nostra famiglia, ormai da generazioni, era solita trascorrere gran parte dell’estate nella casa al mare in Via Roma. Un luogo, quindi, a cui tuttora sono profondamente legato, perche rievoca la mia infanzia e i tanti momenti felici, trascorsi in compagnia dei nonni materni. Dunque, ero deciso nel valutare con doppia attenzione quella richiesta: non volevo incorrere nell’errore di a assumermi rischi inutili solo per il piacere di volare su Iuoghi a me così cari.
Constatai immediatamente che la spiaggia di Serapo non era molto lunga: credo non superasse il chilometro e mezzo; in più, sul lato est della spiaggia si staglia il promontorio di Monte Orlando, con al suo interno il complesso della misteriosa montagna spaccata.
Insieme a Marco Zoppitelli, pony 6, nonché responsabile dell’addestramento, valutammo le varie possibilità e studiammo le eventuali modifiche da apportare ad alcune manovre del programma. Alla fine, concordammo sul fatto che, con una serie di accorgimenti, la Manifestazione era comunque possibile. E così fu.
L’esibizione iniziò nel tardo pomeriggio, intorno alle diciassette, come prestabilito. Tutto sembrava avvenire come da copione.
In mare, la serie di boe ad indicare la traiettoria da seguire, come previsto in caso di voli su acqua, con al centro un’imbarcazione, come riferimento per tutti gli incroci. Durante il looping d’ingresso, nel momento di stabilire la bontà dell’allineamento fra boe e barca, tutto mi sembrò “ben messo”. O, perlomeno, nulla in quel frangente (stiamo parlando di una manciata di secondi) catturò la mia attenzione. Poi, accadde qualcosa di strano.
Dopo l’apertura del Cardioide (la formazione si separa in tre sezioni disegnando “una grande mela”), la situazione che avevo davanti era questa: da una parte la montagna spaccata piuttosto alta e imponente; dall’altra la spiaggia, molto lontana come del resto avevamo stabilito proprio per affrontare al meglio la manovra; di fronte, lo specchio d’acqua illuminato dal sole.
In quell’attimo, provai un’insolita sensazione di disorientamento: non vedevo affatto i riferimenti e non capivo se fossi parallelo o meno alla linea di costa. ”Tranquillo Jan, continua” mi dissi, con fare rassicurante.
Nel momento di livellare (riprendere, cioé, la posizione di vettore orizzontale in direzione dell’incrocio centrale) cercavo di individuare almeno la barca, ma soprattutto l’altra formazione, quella che ci veniva incontro. Poco prima dell’incrocio – lo ricordo come fosse adesso – intravedevo solo un gruppo di boe, mi rendevo conto di non essere parallelo e, cosa più preoccupante, non riuscivo ancora a visualizzare la posizione degli altri velivoli. Tutto questo, ovviamente, accadeva in un attimo.
Quando finalmente mi apparvero davanti, era davvero molto tardi. Troppo tardi, perché potessi effettuare una qualunque correzione. Per fortuna, l’altra formazione non stava venendo dritta come avrebbe dovuto, ma aveva,già impostato una leggera salita e si trovava sulla traiettoria giusta per evitarci. Grazie al cielo, non accadde nulla – nulla di irreparabile, intendo – e il resto del volo prosegui senza altri “intoppi”. Io, però, sapevo che era successo qualcosa che non sarebbe dovuta succedere: una situazione di pericolo, sventata, all’ultimo momento, proprio da Marco che, con grande esperienza, aveva impostato in autonomia una correzione a uscire evitando, così, il peggio.
Quando atterrammo, ero piuttosto scosso. A volte è proprio questione di attimi, pensai dentro di me.
La maggior parte dei gregari era ancora ignara di tutto così come le migliaia di persone in spiaggia che “dal basso” lodavano e applaudivano alla nostra performance.
Mi incamminai subito verso Marco e, non trovando le parole, lo strinsi in un forte abbraccio.
“Ci si abbraccia per ritrovarsi interi” disse una volta una persona molto saggia.
Marco è un ragazzo straordinario, con il quale è impossibile non andare d’accordo sia in volo, sia a terra. Quando mi chiese cosa fosse successo, gli spiegai del leggero disorientamento, del sole, del fatto che non riuscivo a vedere bene né le boe né il resto della formazione… tutte cose che non devono accadere, ma purtroppo possono accadere. A volte, basta davvero un niente per trasformare un sogno in un incubo, com’è accaduto a Ramstein o in altre occasioni, fortunatamente senza risvolti altrettanto tragici. Momenti nei quali dobbiamo riflettere e tornare con i piedi per terra.
Nel nostro ambiente, infatti, un mancato incidente viene affrontato come un “vero” incidente, per studiare cosa è andato male e prendere tutte le misure necessarie a evitare che possa ripetersi di nuovo.
Questo ricordo e il fatto che mi sia tornato in mente solo di recente, mi hanno spinto a riflettere sul senso della vita in relazione all’esistenza della morte. Effettivamente, riconoscere la paura della morte e imparare ad accettarla, ci porta a dare un nuovo valore alla vita stessa. Le parole sono mie, ma il pensiero è di Yalom, che spiega quanto questo “lavoro” non sia affatto facile, “perché è come tenere lo sguardo fisso sul sole: dopo un po’ non resistiamo più.” A maggior ragione quando fai un mestiere così rischioso che richiede una certa freddezza ai comandi. Sai bene che non puoi permetterti di lasciare il benché minimo spazio a distrazioni o ad altri pensieri, e così, finisci così finisci col portarti quella reddezza, anche a terra. Non vuoi e non puoi soffermarti sulla pericolosità di quello che fai, per non perdere quello stato di consapevole ingenuità e di leggerezza. E, quando ripensi a episodi come questo, con il senno di poi ti chiedi: “me chi me l’ha fatto fare?! ” Eppure, quando vivi in quella dimensione sei estremamente felice e concentrato, e certi pensieri non ti sfiorano nemmeno, come se non esistessero. Se accade – mi dicevo – vuol dire che doveva aveva andare così. Credo che avere un atteggiamento fatalista sia l’unico modo per poter fare quello che fanno le Frecce Tricolori.
Quella sera, quando raccontai a Caterina quanto era accaduto, rimase ammutolita. Promisi a me stesso che in futuro avrei evitato di condividere con lei episodi simili. Sarebbero stati solo motivo di ulteriore preoccupazione. Anche lei, non appena vide Marco, lo abbracciò commossa e lo ringraziò.
Quando hai una famiglia, dunque, la consapevolezza di questo legame così forte è motivo di cambiamento anche nel modo di volare. E in fondo, è giusto così.
Brano pubblicato con l’autorizzazione dell’autore – Foto di Fabio Zannettino