Ultimo aggiornamento: 5 Maggio 2020

"Dormi mia bella dormi"
1966

di Gianfranco Zedde
da “Circolo della PAN” – Notiziario riservato ai Soci del Circolo della Pattuglia Acrobatica Nazionale anno 15 – n° 26 – 1/10/2013 – pag. 22 e segg.

Sala del cinema parrocchiale di Bolzano Vicentino, 9 maggio 1966: il Coro “Stella Alpina” dell’A.N.A. di Treviso tiene un concerto. Uno dei tanti che la compagine svolge in questo periodo primaverile, il fatto poi di appartenere all’A.N.A. e di portare il cappello d’alpino ci pone nella condizione di essere richiesti dalle molte Sezioni della Regione e non solo. È una serata quasi di routine, immersa in una atmosfera tipica festaiola di tutte le feste organizzate dagli alpini. C’è da mangiare e soprattutto da bere, ci si intrattiene con varie persone, alpini conosciuti e non, si scambiano impressioni ed opinioni di varia natura, si beve qualche “ombra”: tutto nella norma.

Pochi minuti prima dell’ora stabilita, mi avvio verso il palco. Molti coristi sono già lì ed il Maestro Piero Pagnin dà le consuete raccomandazioni.

Io vengo attardato da un ragazzo più o meno della mia età, che con fare annoiato e triste mi chiede alcune sue curiosità. È appoggiato al muro in fondo alla sala che è ancora semivuota; malgrado i tanti posti liberi, è in piedi, sembra lì di passaggio. “Senti, alpino, che coro siete? da dove venite? cosa cantate?”. Tutte cose scritte nelle locandine affisse dentro e fuori la sala.

Rispondo di buon grado al mio interlocutore, mi rendo subito conto che ha alzato il gomito.

Il suo racconto si fa interessante quando a proposito di “cappello d’alpino” mi dice che anche lui è stato un “alpino”, e che nel suo aereo ha effigiato appunto un “cappello d’alpino”.

Il mio stupore è grande, questo le spara grosse. Cerco un atteggiamento neutro, faccio finta di nulla, sto al gioco, la storia dell’aereo m’incuriosisce molto, pur tenendo conto della visibile sbornia lo incalzo: “Come tu hai un aereo?”.
Egli soggiunge senza batter ciglio: “Sì, faccio parte della Pattuglia Acrobatica Nazionale!”.
Le Frecce Tricolori?”, ribatto io allibito.
Sì, sono Pony 7, gregario di sinistra”.

Mai avevo fino ad allora sentito questa definizione, sono stupefatto, lascio immaginare cosa può passare per la mente di uno che ascolta una affermazione del genere, in quel luogo, in quel frangente. Ho sempre creduto nel mio immaginario che i Piloti della Pattuglia fossero dei super uomini più vicini ai marziani che all’uomo di assoluta normalità che avevo di fronte. Nell’argomentare dell’amico però c’era una padronanza di linguaggio, se pur intercalato da frasi in dialetto e altre in un ottimo italiano, che mi indussero al rispetto; era incredibile, ma non presi una posizione.

Data l’ora non potevo dilungarmi, lo salutai e gli promisi, non per scaricarlo di continuare la conversazione a fine concerto, senza indugio salii sul palco. Trovai più capannelli di coristi e in uno c’era anche il PAGNIN che affabulava con altri di quanto vino si sarebbe potuto bere in una festa come quella, tenendo conto delle sbornie in circolazione. Fu in questo clima che raccontai il mio incontro straordinario, con quello che più tardi saprò di chiamarsi Vittorio.

Come sempre in questi casi la derisione è all’ordine del giorno, battute, risolini, “effetto ombre”, nessuno ha creduto alla storia, maestro compreso.

Il concerto termina dopo una ventina di canti con grande successo, la sala era strapiena tanto che molta gente rimase in piedi. Prima che si chiudesse il sipario il maestro PAGNIN, rivolge alcune parole di ringraziamento agli organizzatori e al caloroso pubblico, e dal momento che in sala c’era un nutrito numero di presenze femminili, accorda un bis e lo dedica alle donne presenti.

Era consuetudine del maestro dedicare alle signore questo bel canto, sempre molto gradito e apprezzato. “Dormi mia bella dormi, dormi e fai la nanna che quando sarai mamma non dormirai così. Dimmi chi mai t’ha fatto quel viso così bello, è stato Raffaello la mano di un pittor. Dormi mia bella…”.

Le belle parole del testo e la dolcissima melodia, scuotono l’amico, che con gli applausi ancora in corso si avvia sul palco dall’accesso posteriore dello stesso: vuole incontrare a tutti i costi il maestro.

Da una certa distanza incrocio lo sguardo del maestro Pagnin, che mi fa l’occhiolino eloquente e molto sornione, come dire: è qui! Mai avrei immaginato il suo straordinario interesse e a cosa mirasse. Momenti concitati dal fatto che più persone vennero per congratularsi con il maestro. Mi avvicinai, lui si era già presentato al Pagnin, che prontamente allarga le presentazioni, a me e ad alcuni altri coristi lì vicini ignari dell’antefatto.

Sono Vittorio Zardo”, ripete prontamente riconoscendomi. Vittorio aveva già detto alcune cose su chi era e cosa faceva, ma era ben altro ciò che voleva, così sviò e saltò ulteriori preamboli e passò al concreto suo intendimento.

La richiesta era cortese, implorante e anche decisa, era ansioso, aveva paura che qualcosa di molto importante potesse sfuggirgli. Chiese al maestro di portare tutto il coro a casa sua per fare una serenata alla “moglie”, avendo avuto un diverbio di carattere molto privato e voleva riappacificarsi. Quel canto finale era perfetto, unico, ideale, rispondeva in tutto parole e musica al suo scopo.

Egli era molto convincente, ma il coro si divise. Tra quelli contrari e i pochi favorevoli, tra i quali io, e soprattutto il maestro Pagnin – determinante. Inoltre Vittorio non abitava lì vicino, avremmo dovuto allungare il tragitto con una deviazione per andare a casa sua, tutto sembrava più difficile e complicato.

Tra i contrari c’è anche il Presidente Prof. Bepi Tomaselli, sempre ligio al programma e puntuale rispetto degli orari. Viste le difficoltà Vittorio fu costretto suo malgrado a scendere in particolari privatissimi. La signora non intendeva mettere al mondo “figli potenzialmente orfani” data la sua pericolosa “attività di pilota”, quindi, è facile capire quale fosse il contendere della coppia.

In quel racconto fatto con il cuore in mano non c’era più il ragazzo di prima ma un uomo vero che forse per quel motivo aveva cercato nel vino un momento di stordimento.

Il racconto di Vittorio ha vinto. Ha risvegliato in noi sensibilità insospettate. Decidemmo che la cosa si doveva fare. Vinse quindi la minoranza (alla faccia della democrazia). Vittorio esulta di gioia: “bene!”. “Io faccio strada” e chiese di seguirlo e si avviò con la sua 500 davanti al nostro pullman.

Percorremmo alcuni chilometri. Naturalmente durante il tragitto le discussioni continuarono, con la minoranza che ribatteva colpo su colpo, perché qualunque fosse stato l’esito facevamo un’opera buona aiutando un uomo in difficoltà e non sarebbe cascato il mondo in ogni caso. Giunti sul posto, parcheggiammo e a piedi raggiungemmo la casa. La mezzanotte era passata da un pezzo, ci disponiamo nel luogo e nel punto indicato da Vittorio, che non nascondeva l’ansia e la gioia per il risultato raggiunto.

Una siepe alta nasconde buona parte della casa.

Intravediamo dei balconi al piano superiore, sono chiusi con degli scuri. Il buio è totale almeno all’inizio: poi col passare del tempo migliora anche per qualche riflesso dai lampioni lontani nella strada.

Il maestro Pagnin richiama l’attenzione, ci dispone allo scopo e si comincia.

Dormi mia bella dormi”, l’atmosfera cambia, è surreale, il canto eseguito piano è così dolce che ci emoziona malgrado l’avessimo cantato per decine di volte ma senza quella tensione emotiva.

Non basta una sola esecuzione, ci vorrà la seconda, la terza, la quarta ma non accade nulla, c’è molta delusione.

Cambiamo repertorio con alcuni canti alpini quelli più adatti al momento ma ancora niente, Vittorio è sulle spine, noi altrettanto, c’è il timore che possa essere tutto inutile, vano. Non volevamo fallire.

Nel gruppo dei contrari si bisbiglia tutto il malumore, poi con vigore il Pagnin riprende il controllo, ordina il silenzio e intona ancora una volta, “Dormi mia bella dormi”, qualcuno sussurra : “Ma no massa..… desso sveiate che xe ora”.

Nessun segno di vita. Il tempo passava inesorabile e molti pensieri ci frullavano in mente.

Ma finalmente uno scatto, uno scricchiolio ferroso, un balcone si apre leggermente, con l’ansia al culmine attendiamo che si affacci la signora, non si scorge nessuno, una voce maschile interroga: “Vittorio sei tu?”. “Sì, papà”, risponde lui.

Il balcone si richiude e riprende l’attesa.

Da lì a qualche interminabile minuto scende qualcuno, un signore dai modi garbati ci invita ad entrare, è abbastanza sorpreso per il numero delle persone che si trova davanti. É un po’ una ressa da pecore che  entrano nell’ovile, ci si accalca, (più di trenta persone contemporaneamente). Stretti come sardine varchiamo l’uscio, possiamo vedere solo ciò che è al di sopra delle teste, le pareti sono tappezzate fino al soffitto di fotografie di aerei e della Pattuglia Acrobatica, e già qui prendiamo coscienza che Vittorio aveva detto la verità e che è davvero un “pilota”.

Il “papà” confabula con il “figlio”, probabilmente chiedeva anche lui lumi sulla inaspettata intrusione di tanta gente sconosciuta. Dopo alcuni momenti e superato l’iniziale imbarazzo spuntano delle bottiglie, è il rito delle “ombre “ che si perpetua.

Per la maggioranza di noi non era il vino che interessava, ma di vedere la signora e la conseguente pace tra i due. Siamo un po’ delusi.

Dopo una buona mezz’ora, tra il brusio generale: “Eccola”, dice qualcuno, tutti ci voltiamo: la signora è in vestaglia, ed è visibilmente a disagio. Tutta quella gente. Attimi di imbarazzo, poi i due si abbracciano, grande applauso di tutti.

Ora possiamo riprendere la strada verso casa consapevoli di aver conquistato un nuovo amico.

Era nata una grande amicizia, non solo con Vittorio, ma con tutta la Pattuglia, che lui ha coinvolto.

Più volte ci siamo incontrati e bevuto insieme, ospiti in quel di Rivolto nella loro base.

Memorabile rimane la serata della sua festa di laurea, sempre a Rivolto, vino e birra a fiumi, grandi mangiate e interminabili cantate (formidabili quei ragazzi, anche a terra).

Sono passati oltre quarant’anni non l’ho più rivisto. So che è diventato papà di una splendida bambina e molto probabilmente oggi, anche nonno, come me.

Un comune amico mi ha detto che Vittorio vive a Roma, ha raggiunto il grado di Generale ed è felicemente in pensione.

Quando oggi mi capita di assistere, anche alla televisione, ad una esibizione delle Frecce Tricolori non posso non tornare con la mente a quella stagione, perché gli uomini straordinari di allora hanno passato il testimone agli altrettanto straordinari delle generazioni successive.

Cambiano gli uomini, ma lo spirito rimane sempre lo stesso, ne sono certo.

Grazie Generale Vittorio Zardo, Grazie Frecce Tricolori.

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Vignetta del compianto Bruno GARBUIO alias “BRUGAR”

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Quadro esposto nella Sede del Coro “Stella Alpina” di Treviso

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