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Celebrato il 38° anniversario dell'Aeronautica

Entusiasmante prova offerta dai giovanissimi piloti della Pattuglia nazionale acrobatica - Degni continuatori d’una gloriosa tradizione

di Ugo Sartori
da Il Piccolo, 29 marzo 1961, p . 2

Il trentottesimo anniversario dell’Arma aeronautica celebrato all’aerobase di Campoformido: dopo la Messa al campo, il comandante colonnello Gon, triestino, legge ai reparti sul campo il messaggio del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica generale Silvio Napoli

DAL NOSTRO INVIATO
Campotormido, 28

Trascriviamo, in apertura di questa nota di cronaca, otto nomi: maggiore Squarcina, di Padova; capitano Scala, di Messina; tenenti Sabbadini, di Roma; Vianello, dl Udine; Imparato, dì Roma; Ferri, di Bologna; Panario, di Alessandria; Pinato, dì Padova. Sono gli otto della Pattuglia acrobatica nazionale. Ora ce li vediamo dinanzi, al Circolo ufficiali dell’aeroporto, nelle tute azzurre; sono appena sbarcati dagli « F 84», dopo aver fatto diavolo a quattro, lassù nel cielo. Tranne il loro comandante istruttore, Squarcina, che è sui quaranta, sono tutti adolescenti rubicondi, rossi come pomi di buona coltura. Qualcuno domanda: «E come fate quando…»; e nel dare una risposta approssimativa, aggiungono rossore alle loro gote.

Titani in virginee forme: un ricordo scolastico ci suggerisce i termini che altrimenti non sapremmo trovare. Anche perché, vedendoli così alla buona, come avessero appena lasciato il banco di scuola anziché un fuso che si conficcava urlando nei cielo, vertiginoso e docile, saliva dritto incontro al sole e ricadeva a precipizio, velocissimo quasi più della capacità dell’occhio di seguirlo; domandare insomma qualche cosa di traducibile in lettere comuni, era un po’ come pretendere di avere risposta dai pianista insigne sui come posa le dita sulla tastiera e trae certi suoni.

Pensiamo che a questi selezionatissimi esemplari di una razza, appartenga un segreto senza soluzione: un mistero umano, che altre volte si può chiamare vocazione. Meglio, dunque, guardarli, ammirarli per come ci appaiono: nella loro stupenda semplicità di ragazzi cresciuti oltre i limiti della vita comune, nella fiammata di una passione che attinge combustibile nei più alti regni dall’ardimento, del virile coraggio; e tuttavia Impastati di uno spavaldo romanticismo, senza quale forse non sono possibili eroismi.

Ci eravamo ripromessi di non eccedere nal linguaggio; abbiamo paura di essere accusati di iperbole, addirittura di retorica. Ma come si fa a non estendere le nostre impressioni raccolte oggi sull’aeroporto di Campoformido — si celebrava il 38.o anniversario di fondazione dell’Aeronautica italiana – nella loro genuinità? Gli otto acrobati dell’aria erano accanto a noi, rientrati appena sul livello terrestre dopo la loro folle escursione nell’azzurro sulle macchine volanti, e sorridevano, come fossero tornati, che so?, dall’aver fatto quattro passi ascoltando un giradischi; e invece avevano buttato la vita in ogni frazione di secondo, per quindici minuti, intonando con le trombe fragorose dei loro «jet» un inno allo spazio, alla velocità, al gaudio di una conquista umana più alta di quella raggiunta dalla macchina.

Perché se l’aereo nel quale ciascuno stava come il baco nel suo bozzolo, era sì capace di portentose imprese — s’impennava, cascava, si capovolgeva, roteava sul suo asse, trafiggeva fulmineo le masse di aria e poi ridiscendeva sino a quota incredibile, sopra le nostre teste; e correvano. insieme, facevano scoppiare la «bomba», poi si disperdevano per i quattro punti cardinali, e si ricongiungevano, giocavano, si cavalcavano, sembravano amici perduti in una contesa a rimpiattino, finita la quale si disponevano a rombo, a distanza calibratissima con un’eleganza da pista – se di tutte queste cose erano capaci, e respirando l’ossigeno necessario per le velocità estreme e ascoltando in cuffia gli ordini da terra dei comandante, e non perdendo mai cognizione del «programma ufficiale» da eseguire, era sempre in ciascuno di loro, l’uomo che rendeva possibile, uno dopo l’altro, tanti miracoli; il piccolo e fragile uomo dal cuore possente.

Ci sia dunque consentita, una volta tanto, di mettere a fuoco i nomi di quegli otto ufficiali italiani che compongono la pattuglia acrobatica nazionale; in tempi in cui I giornali sono soliti spendere colonne per tanti eventi, spesso malinconici, e allestire «passerelle» per i divi del Cinema della canzone, dello sport, della televisione o della cronaca nera, non sia discaro sapere che dalle nuove generazioni possono anche esplodere, quasi senza semina, di questi autentici fiori umani. Il vedere, stamane, come delle giovani donne guardavano con un trasognamento che può considerarsi inedito per certo costume d’oggi, quel ragazzi vestiti d’una tuta, ancora percorsi dal fremito sublime dello sforzo sopportato nella carlinga per fendere le muraglie dell’aria e imporre quasi la propria volontà alla ruggente macchina, rappresentava una lieta sorpresa.

«Le arti militari del tempo nostro – commentava il maggiore pilota Baschirotto, cinque medaglie d’argento – propongono nuovissimi problemi tecnici, l’uomo con il suo coraggio può essere considerato una voce isolata e antica. Il balzo imposto dalla rivoluzione nucleare a tutte le anni, confina fatalmente le cose di ieri all’età della pietra, Ma sino a un certo punto. L’uomo continuerà a dar la misura di sè. La macchina non arriverà mai a fare ciò che questi uomini possono fare, e dimostrano di saper fare».

Otto giorni fa, fummo all’aeroporto dl Padcva, dove si affidava la bandiera alla prima Aerobrigata italiana intercettatori teleguidati; e si dissero le stesse cose: che molte caserme prendevano il posto di aule universitarie. Il cacciatore di vecchio stile non dovrebbe più avventarsi sull’aereo nemico: lo farà per lui il missile, con il suo infallibile cervello elettronico; basterà premere un pulsante, e tutto sarà fatto.

Questo, in teoria; e anche in pratica, beninteso. Ma non e tutto. Le Aeronautiche dí tante Nazioni hanno le loro squadriglie di cacciatori, di acrobati del cielo; è il fiore dell’Arma, quasi la sua bandiera. Tutti gli anni, in questo o quel Paese, gli acrobati del cielo danno spettacolo; e quasi sempre vincono gli italiani. Forse, non perché siano «più bravi» degli altri; dì sono formazioni straniere, anche più numerose delle nostre, le quali fanno stare con il naso in su decine di migliaia di persone, e fermano il respiro con le loro perfettissime esibizioni; tracciano sulla lavagna del cielo incredibili arabeschi, fanno il «diamante», la «rosa». Ma poi vengono gli italiani; e gli spettatori subiscono una carica emotiva più profonda: il «brivido». Non tanto perché le loro acrobazie rivelino uno spreco di coraggio, o un virtuosismo tecnico inarrivabile, ma perché, al di là delle macchine e dei prodigi di una scuola, balzano fuori gli uomini quali sono, con le loro incomparabili individualità, Sono poeti del coraggio, li definì un giorno ,qualcuno, all’indomani dell’esibizione dei «folli di Campoformido».

Breve la cerimonia all’aeroporto; la Messa al campo, celebrata dal cappellano capitano Gentile; brevi, elevate parole dell’Arcivescovo di Udine mons. Zaffonato; lettura di un messaggio del capo di S. A. dell’Aeronautica gen. Napoli, fatta dal comandante dell’aereobase, col. Gon, triestino. Presenti il generale Sangiorgrio, della Brigata alpina «Julia», il gen. Rossi, comandante della fanteria della «Mantova», numerosi ufficiali dì tutte le Armi, le autorità di Udine, con il viceprefetto dott. Piva e il vicesindaco ing. Gaggia. Ai lati dell’altare, due aviogetti Fiat G 91, atterrati poco prima ai margini della pista.

Sulle ultime parole della «Preghiera dell’aviatore» letta dal cappellano dell’Aeronautica calò un rombo: stavano arrivando da Rivolto gli aviogetti F 84 della Pattuglia acrobatica nazionale. Il cielo terso e levigato, da endecasillabo amoroso, li attendeva come un palcoscenico di un’altra dimensione. Furono presto al sommo del campo, elegantissimi, distanziati come su una scacchiera millimetrata: passarono dapprima simili a uno stormo di rondini in volo di migrazione; poi attaccarono la loro sarabanda. Un violinista diabolico che suona sulle cinque corde, poi le rompe una a una, e sull’ultima scatena un furore di suoni. Era Il momento della «bomba»: un brivido per tutti, vecchi e giovani. Disse un anziano pilota: «L’Italia che celebra I cento anni, qui ne ha venti».

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