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di Jan Slangen, Volare alto, La Nave di Teseo, 2019, pp. 96 – 100

Il mio anno da sacco – si dice così quando da ultimo arrivato voli nel posto posteriore del passeggero — è stato incredibile. Mi sono presentato alla base di Rivolto, in provincia di Udine, il 4 giugno, quando la stagione acrobatica era già iniziata. Nei giorni liberi, iniziai a volare. Non si tratta dell’addestramento vero e proprio, che solitamente inizia a stagione conclusa, ma di essere abilitati o riabilitati a volare sul 339.

Quell’anno – il 2004 – siamo stati selezionati in due: io e Dario appunto. Non avevamo ancora la tuta blu che contraddistingue i piloti delle Frecce, ma dopo la “solista” ci guadagnammo lo stemma del Reparto da applicare sul petto. Eravamo cosl orgogliosi! Avevamo realizzato un sogno, con storie diverse ma percorsi alle spalle molto simili.

Ancora una volta si trattava di lavorare sodo e confermare le aspettative che la squadra aveva riposto in noi. A volte eravamo chiamati a svolgere i ruoli più impropri, ma il tutto avveniva con estrema naturalezza e massima fiducia.

Seguivamo la Formazione nei vari spostamenti settimanali: circa trenta o quaranta persone, a seconda della complessità dell'”uscita” con undici 339 e un aeroplano da trasposto al seguito (C-130 Hercules). Quell’anno, erano programmate tantissime missioni all’estero, la maggior parte in Europa (Francia, Spagna, Slovacchia, Inghilterra e Malta), ma non mancavano delle eccezioni (Egitto, Russia e Libano).

In particolare, ricordo con grande emozione la manifestazione a Beirut, la capitale del Libano. A cavallo tra Oriente e Occidente, tra mare e montagna, lusso e ricostruzione, Beirut era una città in cui le realtà opposte sembravano convivere in un’armonia assolutamente unica.

Ad accoglierci in aeroporto c’era l’addetto militare che tenne subito a precisare: “C’è tantissima attesa per la vostra esibizione.”‘ E dopo un briefing molto accurato sulla sicurezza, ci ricordò che la manifestazione era stata fortemente voluta a livello politico, dal momento che le Frecce Tricolori sono anche un’occasione per instaurare o consolidare rapporti diplomatici con altri Paesi.

Faceva un caldo afoso e l’aria aveva un colore grigiastro. Ricordo il frastuono dei clacson e un odore intenso di caffè. I palazzi si alternavano in un miscuglio così caotico di grattacieli e locali di tendenza a poca distanza da quei muri crivellati di proiettili che rammentavano come questa terra fosse stata teatro di uno dei conflitti più mortali del Medio Oriente. Ovunque andassimo, eravamo sempre scortati dai servizi segreti libanesi.

Quando arrivò il giorno della manifestazione, eravamo circondati da una folla oceanica (intendo a terra, accanto al Comandante nella posizione centrale denominata “Biga”): un entusiasmo e un calore indescrivibili, ma soprattutto una gioia contagiosa, come se la gente fosse in festa per un’occasione che aspettava da anni. Si percepivano la voglia di stabilità e pace dì un popolo che aveva sofferto troppo e troppo a lungo.

Non appena la Formazione scomparve dal campo visivo, fummo letteralmente travolti dalla folla in delirio. Mi sentivo un supereroe senza super poteri. Pensai: non ho fatto nulla per meritare tutto questo. La gente sembrava impazzita e si dimenava per avvicinarsi a noi il più possibile. Volevano stringerci la mano o anche solo sfiorarci (non era né il luogo né il tempo dei selfie).

La sera, ci ospitarono in uno dei locali più alla rnoda della città: al nostro ingresso seguì un momento di silenzio generale, dopodiché scattò un fragoroso applauso e fummo invasi da un genuino senso di gratitudine che, a dir il vero, difficilmente ho incontrato negli anni avvenire, nonostante le Frecce Tricolori siano molto amate un po’ ovunque. In quell’istante pensai: sono un ragazzo davvero fortunato.

E di lì a poco, si avvicinò un giovane libanese: era visibilmente commosso ed emozionato. Voleva ringraziarmi, ma non sapeva come. Se avesse parlato la sua lingua, non avrei capito una sola parola. Così guardò il bicchiere che aveva tra le mani e me lo offrì. Gli occhi dicevano: “Prendi, è per te!”. Rimasi molto colpito dal suo gesto. E certo non potevo rifiutare. Così, accettai, ringraziai e bevvi.

La mattina dopo – non so se sia stato l’alcol o il cibo o la tensione del giorno prima – mi svegliai che non mi sentivo bene. Raramente, anzi, mi ero sentito così male. Non potevo, però, mancare all’appuntamento della delegazione italiana con il Presidente e il Primo Ministro. E, così, indossai la tuta “verde militare” e mi avviai, malgrado fossi preda di un senso di spossatezza molto forte.

Le macchine blindate della scorta ci prelevarono dall’albergo e ci guidarono attraverso il caos del traffico cittadino: la situazione era tutt’altro che tranquilla. Qualche tempo dopo, venimmo a sapere che il Primo Ministro era stato assassinato. Giunti al Palazzo presidenziale di Baabda, fummo accompagnati in una sala immensa e sontuosa, tappezzata di arazzi e quadri giganteschi. Elegantissimi tappeti ricoprivano tutto il pavimento senza lasciare spazi vuoti, come in una complessa partita di Tetris. Tutt’intorno, lungo le pareti della sala, pregiate sedie in legno istoriato.

Ci chiesero di attendere lì, in piedi, ciascuno davanti a una sedia. Il Presidente non si fece attendere, entrò e volle stringerci la mano uno ad uno. Ricordo che – nonostante mi sentissi davvero male – riuscii persino a scambiare due parole con lui. Non appena si allontanò, però, cominciai a sudare freddo. Sentivo l’impulso di rigettare ma la gravità di quell’immagine mi dava la forza di resistere e scongiurare un “incidente diplomatico”. La grande porta, per mia fortuna, era rimasta aperta. La questione era: se non fossi riuscito a trattenermi, avrei potuto almeno precipitarmi fuori dalla sala.

Al centro c’erano telecamere e fotografi, che dovevano registrare i discorsi ufficiali e immortalare i momenti salienti della cerimonia. Dolori e senso di nausea aumentavano. All’improvviso la porta venne chiusa. A quel punto, mi sentii davvero perso e fui costretto a far appello alle ultime forze rimaste. Finalmente arrivò il momento della foto di gruppo. Si trattava di aspettare una manciata di secondi, che mi sembrarono interminabili.

Oggi, riguardando la foto del Presidente con la delegazione italiana rivedo il mio viso più bianco del bianco del nostro Tricolore, e ripenso con un misto di sofferenza e ilarità a quella indimenticabile esperienza.

Rientrato in camera, mi sentivo uno “straccio” e senza il provvidenziale aiuto dei dottori di Rivolto – che ci seguono nelle missioni nei paesi più a rischio – non sarei riuscito a recuperare così in fretta. Per fortuna, non facevo ancora parte della squadra e quindi non veniva a mancare una “Freccia”

Quando sei titolare in Formazione – che, a differenza di altre pattuglie, non ha riserve – hai anche la responsabilita di garantire uno stato di efficienza psico-fisica ottimale. Sai che non puoi permetterti rischi inutili, e che devi stare particolarmente attento a tutti quegli infortuni – domestici e no – che possono impedirti di volare.

A, volte, però la quotidianità ti mette fuori gioco. In quel caso, resta a terra anche il pilota che occupa la posizione simmetrica alla tua, per fare in modo che, vista da terra, la Formazione non perda la bellezza che le deriva dal suo equilibrio formale. Vien da sé che chi ricopre posizioni più im-portanti, ha responsabilità ancora maggiori perché, se ad esempio è il Capo Formazione a non poter volare, l’intera pattuglia è costretta a non alzarsi in volo.

Brano pubblicato con l’autorizzazione dell’autore

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