(Ultimo aggiornamento: 5 Dicembre 2020)

Cambiare strada

Curiosità, voglia di conoscere e crescere, capacità di adattamento

da Massimo Tammaro, Sogno, dunque rischio, 2019, Historica, pp. 103 e segg.

Codroipo. 10 febbraio 2010. Un tardo pomeriggio freddo e piovigginoso. C’è foschia.

Sono venuto al Parco delle Risorgive. È un luogo carico di energia. Ho bisogno di ricaricarmi.

Resta un ultimo volo. L’ultimo volo da Pony 0. Domani. Poi lascerò il mio posto al maggiore Marco Lant e non sarò più il comandante delle Frecce Tricolori. Sarò altro.

Ho bisogno di guardarmi dentro e questo è il luogo più adatto. Qui la natura ha disegnato un paesaggio fiabesco. La pioggia che è penetrata nel terreno dell’Alta Pianura è percolata attraverso strati di ciottoli e ha formato una falda acquitera che si è fermata, incontrando uno strato impermeabile d’argilla, poi si è accumulata e cresciuta, è risalita fino a riaffiorare qui, nella Bassa Pianura, formando polle d’acqua limpida, incontaminata.

Mi guardo attorno. Specchi d’azzurro, di verde, iridescenti, circondati da frassini, da grossi ceppi di giunco nero, da torbiere.

ll poeta e scrittore Elio Bartolini ha descritto questo luogo in maniera straordinaria in un suo libro. È un brano intenso, cosi bello che ho avuto il piacere d’impararlo a memoria.

«Dove, scomparse sotto la fascia dei magredi, le acque riaffiorano tin troppo esuberanti. Allora qua e là ristagnano, diventano palude, patoc: lande dove sembra camminare su una camera d’aria tanto la terra è impregnata e muschiosa» recito a voce alta, tanto qui intorno non c’è nessuno ad ascoltarmi. Considero che è il modo definitivo per descrivere questi luoghi.

Penso che il tragitto fatto in queste terre dall’acqua piovana è simile al percorso interiore di un insegnamento avuto da un mentore. Non sono le parole in sé a cambiarci, a trasformarci, ma il viaggio che le parole fanno nella nostra anima.

Percorro un ponticello di legno. Mi fermo a metà. Guardo una polla d’acqua che riflette il cielo grigio.

Tiro fuori dalla tasca della giacca che indosso la mia Moleskine nera, la compagna cui confido le mie riflessioni, dove tratteggio le mie visioni, dove a volte, con una sola parola, prefiguro i miei obiettivi. So bene l’ultima cosa che ho scritto stanotte, poco prima di addormentarmi. Una sola parola. Ma non voglio aprire quella pagina adesso.

Il mio pensiero torna allo scrittore Elio Bartolini. Abita nel Palassat, la villa più bella di Santa Marizza di Varmo. La casa dei miei sogni.

Ho visto villa Bartolini per la prima volta nel mese di dicembre del 2000, nei giorni vicini al Natale. Era una sera d’inverno limpida. All’epoca abitavo a Campoformio, il paese del Friuli noto per aver dato il nome al trattato con cui, il 17 ottobre 1797, Napoleone Bonaparte cedette il Veneto all’Austria, avendone in cambio la Lombardia. Ma Campoformio è anche un luogo mitico per l’aeronautica, infatti è il paese in cui, nel 1930, il tenente colonnello Rino Corso Fougier fondò la prima scuola di volo acrobatico, le fondamenta su cui poggerà tutta la storia successiva che porterà alla nascita delle Frecce Tricolori.

Avevo lasciato il paese alla guida della mia macchina diretto verso Varmo, dove c’è la trattoria Da Toni del mitico Aldo Morassutti, il locale dove i piloti delle Frecce sono soliti ritrovarsi. Dovevamo festeggiare li il Natale.

Guidavo tranquillo, ascoltando Comfortably Numb dall’album The Wall dei Pink Floyd. Stavo godendomi l’assolo finale di chitarra di David Gilmour, quando sono giunto al bivio dove dovevo svoltare a destra per dirigermi verso il ristorante. Per una di quelle mie pulsioni d’esplorazione che mi piace assecondare, sono aro attratto da un cartello con scritto “Santa Marizza”, che indicava di svoltare verso destra. Ho obbedito a me stesso, al mio inconscio. Vediamo dove arrivo, mi sono detto.

Mi sentivo sereno, rilassato. Prepararsi a degli scenari nuovi per me non mai una situazione stressante, perché la vedo come un’opportunità. È un qualcosa che mi piace.

Arrivai a una strada chiusa. Mi ritrovai davanti al grande cancello di ferro battuto di una proprietà.

Scesi dalla macchina. L’aria era fredda, frizzante.
La luce della luna spandeva un chiarore fiabesco.

Fu così che entrai in quello che sarebbe diventato un altro dei miei sogni.

Mi aggrappai al cancello. Davanti ai miei occhi c’era la casa più bella che avessi mai visto.

Una facciata essenziale, elegante, che terminava con un aggraziato timpano. Accanto al corpo principale dell’edificio notai una barchessa ad arcate. Bellezza e mistero. Lo stupore.

Continuavo a rimanere aggrappato al cancello.

Si può avere un colpo di fulmine per una casa?
Ci si può innamorare di un luogo?
A me è accaduto quel giorno.

Nei giorni successivi m’informai. Quella splendida costruzione, Villa Bartolini, nota anche come il Palassat, era stata costruita nel XVIl secolo dai conti Cernazai e poggiava sui resti di un antico convento. Per edificarla avevano utilizzato i massi presi dal letto del fiume Tagliamento. Era un’opera d’arte, annoverata tra le ville venete.

Seppi che il proprietario era Elio Bartolini, un grande scrittore, un poeta famoso, lo sceneggiatore di molti film di Michelangelo Antonioni.

Tornai alla macchina. Aspettai qualche istante prima di mettere in moto. Dissi a me stesso: non so quando, ma un giorno vivrò qui.

Sono un sognatore. Sono un sognatore che cerca sempre di realizzare i suoi sogni.

Una breve folata di vento mi fa tornare all’oggi. Sono già trascorsi dieci anni da quell’incontro. Anni di grandi successi e di trasformazione interiore.

Stacco gli occhi dallo specchio d’acqua che è stato una specie di schermo magico dove rivedere il passato e mi incammino verso l’uscita del parco. Rimetto la Moleskine in tasca, senza rileggere l’unica parola che ho scritto stanotte.

Domani volerò per l’ultima volta come Pony 0. Adesso è la cosa più importante.

Rivolto. 11 febbraio 2010. Una giornata dal cielo grigio, fredda. Atterro per l’ultima volta con il mio Pony 0. Durante il volo non ho provato emozioni particolari. Ero concentrato. Ho fatto tutto quello che dovevo fare con precisione ed essenzialità. Come mi hanno insegnato nelle Frecce Tricolori fin da quando sono entrato nella base di Rivolto. Essere una Freccia ti trasforma dentro.

Esco dall’ abitacolo. Ho un nodo in gola. Paolo Di Nuzzo, il mio crewchief per undici anni, il Rsponsabile della manutenzione del mio 339, è il primo che abbraccio. Vedo che ha gli occhi lucidi. So di averli anch’io.

I miei soci sono tutti schierati. Tuta azzurra e giubbotto di pelle. Berretto di lana nero calcato in testa.

Mi avvicino.

Ecco i miei ragazzi, la mia Super squadra, la migliore squadra del mondo! Persone straordinarie a cui voglio un mondo di bene.

Mi applaudono. Li abbraccio e li bacio uno a uno. Le Frecce: Jan Slangen, Mirco Caffelli, Fabio Martin e Fabio Capodanno, Piercarlo Ciacci, Marco Zoppitelli, Gaetano Farina, Stefano Centioni, Filippo Barbero, Simone Cavelli, Dario Paoli, Andrea Bolzicco e tutto il resto della Squadra…

L’emozione mi cresce dentro, a ondate potenti.

Alle mie spalle numerosi fotografi scattano toto a raffica.

Poi sono di fronte a Marco Lant, il leader della formazione durante il mio comando; il miglior collaboratore che ogni leader possa sperare di avere al proprio fianco. I nostri sguardi che s’incontrano. Tolgo la sua patch numero 1, e applico quella del comandante delle Frecce Tricolori, quella con il numero 0, al suo giubbotto. Un gesto apparentemente semplice, ma di straordinaria potenza e di valenza simbolica unica nel mondo dell’aeronautica. Un gesto che è uno spartiacque nella mia vita.

Abbraccio Andrea Saia. Il mio amico Andrea. Siamo commossi, con le lacrime agli occhi.

Alle Frecce si arriva ma non si va più via. Lo sappiamo tutti e due, però piangiamo lo stesso.

Guido la macchina, ancora una volta diretto al ristorante Da Tony. Ho organizzato una cena di commiato. Ripenso a quando ho visto per la prima volta Villa Bartolini alla luce della luna. Guardo l’orologio nel cruscotto. Sono in anticipo. Ho tutto il tempo che mi serve. Mi dirigo verso il Palassat.

Parcheggio a pochi metri dal cancello. Esco dalla vettura. Guardo dentro. Sembra che non ci sia nessuno. La splendida villa è avvolta nel silenzio. Resto a lungo a guardarla. Assorbo dentro di me la forza della sua bellezza.

Torno in macchina. Prima di mettere in moto prendo dalla tasca della giacca la Moleskine. La apro. Cerco la pagina dove ho scritto. C’è scritta una sola parola: Ferrari, nella prima riga della prima pagina.

Userò un sogno per arrivare a un altro sogno. Questo è l’obiettivo.

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